Il salvataggio de “La Gazzetta del Mezzogiorno” è sicuramente un’ottima notizia. Viene così scongiurato il rischio che insieme alla testata si perdesse la memoria di oltre un secolo di storia di due Regioni importanti per il paese, la Puglia e la Basilicata. E non solo: l’acquisto della testata da parte del gruppo Ladisa scongiura anche un ulteriore indebolimento del già labile pluralismo in Italia e la perdita di centinaia di posti di lavoro, tra dipendenti diretti ed indotto. Ma alcune considerazioni andrebbero fatte.
Il gruppo Ladisa, al quale va dato merito di aver deciso di investire importanti risorse in un settore che troppo spesso le risorse le brucia, opera nel settore della ristorazione, con importanti rapporti contrattuali con soggetti privati e pubblici per la fornitura dei servizi di mensa. Il giornale, quindi, rappresenterebbe un importante strumento di relazione in Puglia, come è prassi per molti editori italiani, sia a livello nazionale che a livello locale. La drammatica vicenda del fallimento della società di Ciancio aveva lasciato trasparire un’ipotesi: che i giornalisti e i dipendenti della società fallita potessero diventare gli editori de “La Gazzetta del Mezzogiorno”, trasformandosi da dipendenti in proprietari della società editrice attraverso la costituzione di una cooperativa giornalistica.
L’ipotesi era stata anche fortemente sostenuta dal Governo che con due norme aveva prima previsto un diritto di prelazione a favore della società editrice e, poi, la possibilità di accedere subito al sistema di contributi diretti. Ma nonostante gli strumenti legislativi la storia della cooperativa si è fermata prima di iniziare: eccessivo il rischio imprenditoriale e, poi, il finanziamento della fase di start-up e, ancora, le divisioni interne. Pragmaticamente i dipendenti de “La Gazzetta del Mezzogiorno” hanno preferito un editore con spalle solide: la libertà ha un prezzo. Ma questa vicenda pone degli interrogativi ai quali una società civile ed una politica seria dovrebbero provare a dare risposta.
L’editore puro è una chimera del legislatore del 1980 o rimane un obiettivo di salvaguardia del pluralismo? Le cooperative giornalistiche rappresentano uno strumento di libertà o sono un retaggio del passato? E sono domande che richiedono risposte urgenti, perché in Italia esistono centinaia di cooperative giornalistiche in cui giornalisti e operatori del settore hanno accettato di affrontare una sfida difficile, rinunciando a stipendi sicuri, a rivendicazioni sindacali, in cambio di uno spazio di libertà.
E tutti questi soggetti sono a rischio chiusura tra pochi mesi quando entrerà in vigore la norma fortemente voluta dal precedente sottosegretario all’editoria, Vito Crimi, che negozia su tutto, tranne che sulla battaglia ideologica di levare i contributi alle cooperative giornalistiche. Solo a loro. Perché probabilmente dietro la falsa ideologia piace di più un giornale che fa riferimento ad un gruppo industriale con interessi da tutelare che un giornale di proprietà dei dipendenti. Misteri a cinque stelle.
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