La norma che vieta la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare sui giornali è oggetto di grande discussione. E la voce di chi ritiene che il divieto di pubblicazione di atti giudiziari leda la libertà di stampa si alza molto più forte di chi, invece, è d’accordo. Il vero punto è che tra le due posizioni non vi è confronto, ma solo slogan e questo appare ancor più grave in quanto il (non) dibattito avviene proprio sui giornali. Il Fatto quotidiano, chiaramente, si è intitolato la battaglia contro la norma, attaccando Enrico Costa, il primo firmatario dell’emendamento, e tutti quelli che l’hanno sostenuto. L’acronimo è semplice, la legge bavaglio, alcune locuzioni sono oramai talmente entrate nella prassi dei titolisti dei giornali che sono diventate frasi buone per tutte le stagioni. Dall’altro lato i giornali che ritengono giusto il divieto di pubblicare gli atti giudiziari argomentano esclusivamente attaccando la magistratura ed i suoi eccessi. In realtà in un Paese in cui la libertà di stampa fosse davvero elemento di attenzione il confronto sarebbe lo strumento per comprendere le ragioni degli uni e degli altri, rimettendo alla politica la scelta, e quindi, la sintesi dello strumento legislativo corretto per garantire da un lato il diritto all’informazione e dall’altro la tutela della dignità degli indagati. Il bavaglio è, secondo la Treccani, un cencio che i malfattori usano per impedire alle persone di parlare. Ma solo ipotizzare che una legge possa trasformare il Parlamento in una banda di malviventi rende evidente come anche le scelte lessicali siano essenziali per far sì che l’informazione sia strumentale al dibattito sociale e politico e non strumento di guerriglia ideologica. E solo così i giornali trovano lo spazio per alimentare la propria funzione in una società sempre più orientata alla disinformazione dei social network.
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