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MA IL GOVERNO QUANTI GIORNALI VUOLE CHIUDERE? (ENZO GHIONNI)

I conti dello Stato affannano. E il sottosegretario con delega all’Editoria, Paolo Bonaiuti, annuncia un taglio del venti per cento ai fondi per il settore. Ma sono quelli di competenza del 2009. E sì, perché il taglio non riguarda il futuro, o il presente; ma il passato. Sarebbe opportuno, forse, capire meglio le ragioni della polemica intorno ai tagli sull’editoria minore. Da anni un intero comparto è accusato di vivere nella bambagia, attraverso decine di milioni di euro che lo Stato – alla pari degli altri Paesi civili – destina all’editoria. A quella maggiore ed a quella minore.
I principali capi d’accusa sono due: la destinazione di somme importanti a favore dei grandi gruppi editoriali; l’inutilità della maggioranza diretta ai piccoli giornali. Quelli che – è vox popoli – non potranno mai resistere sul mercato visti gli scarsi lettori. Ma sono due accuse, alla Grillo, demagogiche e populiste. Purtroppo sono diventati cavalli di battaglia di questo governo; così come lo erano stati di quello precedente. Questo esecutivo, che dalla sua ha una forza che va ben oltre la propria maggioranza parlamentare però è passato all’azione. E lo ha fatto in maniera semplice e diretta: trasformando il sostegno alle imprese da diritto stabilito, “nell’anno e nel quantum” da una legge dello Stato, a diritto collegato allo stanziamento di bilancio: se ci sono soldi in Finanziaria bene, altrimenti arrangiatevi. I colleghi del manifesto dicono che bisogna salire sui tetti, quelli delle antenne televisive. Hanno ragione. E ne spiego i motivi.
Questa trasformazione del diritto è avvenuta nel mese di dicembre 2009, con la Finanziaria, sulla quale il governo ha però posto la questione di fiducia. Su argomento tanto complesso è stato impedito il normale dibattito parlamentare. Ma non solo. L’efficacia di questa norma fa riferimento al 2009; in altri termini, in totale violazione al principio, elementare, della certezza del diritto le imprese editoriali hanno scoperto a dicembre che per l’anno appena passato, si sarebbero applicate regole diverse da quelle che fino al giorno prima si erano dovute rispettare. Va da sé che tutti i giornali si trovano nella impossibilità concreta di redigere i bilanci di esercizio. Il sottosegretario all’Editoria Bonaiuti e il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, si erano impegnati a risolvere il problema con il decreto Milleproroghe. M al a soluzione non è andata oltre l’assicurazione che il taglio non sarà superiore al 20 per cento delle risorse disponibili. La conseguenza sarà la chiusura di almeno l’ottanta per cento dei giornali minori. Un modo per quadrare i conti per il ministro dell’Economia. Il quale potrà dirsi soddisfatto.
A proposito, le imprese che chiuderanno non cesseranno le pubblicazioni per scelta. Questa cosa accade nei Paesi civili dove si annunciano alle aziende, che a partire da una data ben precisa i contributi diminuiranno di un tot stabilito. Da noi sta succedendo il contrario.
Non si può consentire al governo di cambiare le regole del gioco in corsa. A corsa terminata. Perché poi la chiusura di tante testate non riguarda soltanto gli editori, i giornalisti o i fornitori, ma – consentitemi – tocca il dibattito all’interno del Paese. Se si vuole salvare un sistema, in parte decotto, occorre da subito pensare ad una reale riforma del settore che ci faccia uscire dal limbo, nel quale si discute da tempo. Ma la riforma dovrebbe scaturire da un dibattito tra il Parlamento e gli operatori del settore, non dalle esigenze di cassa del ministero dell’Economia, arbitro unico delle sorti dell’editoria in Italia.

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