Tutti spiati: l’inchiesta a Milano mette in seria discussione alcune delle libertà fondamentali del cittadino e, contestualmente, rivela le falle del sistema digitale e digitalizzato. Perché il caso degli investigatori privati milanesi accusati di aver fatto razzia di informazioni cavate dalle banche dati più blindate del Paese fa scopa con quello dell’impiegato bancario che assumeva dati sui movimenti di denaro di chiunque egli volesse, a patto che fosse cliente dell’istituto di credito.
Questo è uno dei corollari della rivoluzione digitale. In chiave negativa. Le informazioni sono accessibili e le banche dati non sono più così blindate come dovrebbero essere. Il guaio è che sono utilizzate, come da sempre, come da secoli, per le solite questioni di rapporti di forza, di potere, di ricatto (?). C’è però un aspetto deleterio. Ulteriormente tale. Ossia la ricerca di informazioni sui giornalisti e le loro fonti. Sono tanti i cronisti finiti al centro delle ricerche degli investigatori privati milanesi. Stando a quanto emerge dalle prime risultanze dell’indagine, su commissione, venivano ricercate fonti e frequentazioni dei cronisti. Per tentare di colpirli? Per cercare di comprendere da dove arrivassero le informazioni che finivano pubblicate? Per quali ragioni?
La legge impone la segretezza delle fonti. E la tutela a ogni costo. Il giornalista può (e deve) tacere l’identità di chi gli “passa” le notizie che egli stesso verifica prima di pubblicare. È uno dei fondamenti della democrazia. Questa notizia che arriva da Milano è grave e dovrebbe far riflettere. Sugli effetti della digitalizzazione, sui rischi connessi ai sistemi informatici cui demandiamo l’applicazione di valori costituzionali. Su quello che succede quando si lascia al web la possibilità di ampliarsi a dismisura. Di cosa potrebbe accadere, domani, con l’intelligenza artificiale. Con informazioni false iniettate tra quelle vere. Un disastro annunciato.
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