Non sarà certo – ce lo auguriamo, non vorremmo, non ci possiamo credere – una «liquidazione coatta amministrativa» a domare quei ragazzacci del manifesto, che entra nel quarantunesimo anno di età vivendo la fase più difficile di una fiera e spavalda esistenza trascorsa seminando idee (e dibattito, e zizzania) a sinistra. Tanto per non smentirsi loro annunciano battaglia: campagne di sottoscrizione per i lettori, restyling del giornale che, dice Valentino Parlato, negli ultimi tempi «si è un po’ addormentato», presidi e sit in sotto palazzo Chigi. Casino, insomma, come da tradizione. E senza mollare l’edicola.
Ma indubbiamente la situazione è grigia, e il combinato disposto di una situazione debitoria che rimane importante, nonostante la pesante ristrutturazione aziendale a cui il quotidiano si è sottoposto dal 2006, e i tagli al fondo per l’editoria forse per la prima volta mettono seriamente a rischio la testata. Che non ha potuto opporsi alla procedura avviata dal ministero dello sviluppo economico e così fra qualche giorno un commissario ministeriale si sostituirà al cda per verificare se ci sono le condizioni per continuare a pubblicare: non vuol dire chiusura, ma non vuol neppure dire che la chiusura sia esclusa.
Il punto è che, nonostante le fatiche, se la coltre di nebbia che avvolge i contributi pubblici per l’editoria non fosse ancora così fitta, la questione non si porrebbe, o comunque non in questi termini. Per il manifesto (che non può chiudere il bilancio) e per altre cento testate no profit, cooperative, di partito e di idee (fra cui Europa) manca ancora certezza sulle risorse destinate non già per il 2012, ma per il 2011 (ed è uno dei paradossi del sistema). O meglio: per ora sono certi solo i tagli (da 160 milioni a 53). E se anche il parlamento ha impegnato il governo a indicare cifre certe (e a integrarle) e Monti ha detto di aver presente la pratica-editoria, da palazzo Chigi non sono arrivati finora atti formali e spendibili per garantire i giornali a rischio.
Per garantire non già faccendieri e furbacchioni, ma quelle testate vere dove lavorano giornalisti e poligrafici veri e che, dando lavoro a più di quattromila persone, producono contenuti, idee, provocazioni politiche e culturali in un mercato caratterizzato da cali delle vendite e della pubblicità.
Per tutte, il problema non è la riforma dell’editoria, non è quella «bonifica» nella salvaguardia del pluralismo già auspicata da Napolitano. Una buona riforma dell’editoria è benvenuta. L’importante è che, mentre si procede – ed è il momento di procedere – le risorse per andare avanti siano indicate con certezza e stanziate in fretta. Per non trovarsi senza idee, anche quelle che urticano (e giornali veri).
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