Perchè in Giappone l’editoria non è in crisi?

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giornalisti-precari-legge-equo-compensoIn Giappone si leggono ogni giorni milioni di copie cartacee di giornali. Eppure nel Paese del Sol Levante la maggior parte del traffico Internet non viene veicolata attraverso il computer, ma con il cellulare. La musica si scarica con il cellulare; 40 milioni di giapponesi giocano ai videogiochi sul cellulare; il 52% degli utenti di cellulare hanno una flat rate; la maggior parte dei cellulari sono anche schermi televisivi; i manga scaricati su cellulare valgono 143 milioni di euro; nel 2008 il mercato dell’e-book valeva 270 milioni di euro, e l’82% degli e-book vengono letti sul cellulare; anche i blog vengono letti sul cellulare, e i giapponesi sono i blogger più attivi del mondo (ne ha uno personale il 30% delle donne giapponesi tra i venti ed i trent’anni); ciò al punto che, anche se sembra incredibile,il giapponese e non l’inglese è la lingua più usata nei blog; ci sono 1,8 milioni di persone registrate che scrivono storie per cellulare, e un milione di romanzi per cellulare pubblicati nei siti dedicati (alcuni di questi, stampati, hanno tirato complessivamente 17 milioni di copie); il romanzo Koizora (il cielo dell’amore) è stato letto sul cellulare da 25 milioni di persone, poi pubblicato in cartaceo (1,4 milioni di copie), poi trasformato in manga (2 mni di copie), poi in film (3 milioni di spettatori), con colonna sonora composta dai lettori e pubblicata in cd (600 mila copia). Lo scenario è quello che porta alla solita, scontata, conclusione: la carta stampata è morta. Eppure da una ricerca fatta nel 2010 dalle associazioni di categoria emergono dati incredibilmente contrastanti. In Giappone nove cittadini su dieci leggono almeno un quotidiano al giorno. E i numeri sono numeri; in Italia, fonte attendibile, la World association of newspapers (dati 2009) si vendono 98 copie di quotidiani ogni mille abitanti; in Giappone 644. Il web non azzera la carta stampata se la carta stampata non si azzera da sola, per paura, codardia. L’arakiri del qualunquismo.

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