II dibattito sollevato dalla sentenza del Tribunale di Torino nel caso Fiat-Formigli può davvero essere un utile spunto per discutere di una riforma della materia della diffamazione a mezzo stampa e televisione, un campo nel quale i valori della dignità della persona e della libertà di informazione giocano una partita importante nella quale le regole del gioco non sono affatto chiare.
I Tribunali continuano a orientarsi con la bussola del “Decalogo del giornalista”, dettato dalla Cassazione nel lontano 1984, con i suoi dogmi della verità della notizia, della continenza formale delle espressioni utilizzate e dell’interesse pubblico. Tuttavia l’interpretazione di questi pacifici principi prelude a decisioni affidate alla sensibilità del singolo giudice.
La vera giungla è tuttavia quella dei risarcimenti. Il valore della reputazione di una persona può oscillare tra i 10mila e 200 o 500mila euro, con differenze spesso legate alla professione dell’ offeso – particolare tutela è offerta a magistrati e politici – poco compatibili con il principio di pari dignità dei cittadini.
Una specifica legge potrebbe aiutare a restituire certezza ai diritti e confini certi alla libertà di stampa. Per esempio, potrebbe stabilirsi che solo l’attribuzione di uno specifico e concreto fatto non vero costituisca un illecito oppure che solo l’insulto meramente gratuito – in alcun modo connesso con il ruolo pubblico del destinatario dell’espressione – costituisca diffamazione. In ogni caso, a prescindere dagli interventi del legislatore, uno spazio ineludibile resterebbe comunque affidato alla discrezionalità del singolo giudice. E in questa prospettiva sarebbe auspicabile che i Tribunali si astengano il più possibile dal valutare la correttezza formale delle espressioni utilizzate dai giornalisti, evitando di assumersi il ruolo di elaborare ipotetiche regole di buon giornalismo con, ci sia concesso, una pretesa dal vago sapore moralistico.
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