EMILIO FEDE È SOLO IL PRIMO PASSO. ECCO PERCHÉ MEDIASET DEVE RINNOVARE

0
471

Impianto serio, misura, niente fronzoli, una scansione finalmente giornalistica, qualche ospite fino a ieri impensabile come Ferruccio de Bortoli. È il nuovo Tg4 del dopo Emilio Fede. Il neo direttore Giovanni Toti, appena insediato, aveva detto di voler fare un’informazione seria. Ammettendo dunque implicitamente che per vent’anni quella del suo predecessore non lo era.
Meglio tardi che mai, anche se a Mediaset potevano francamente pensarci prima, evitando una lunga e imbarazzante deriva.
Ma il ribaltone al Tg4 ha una valenza che va ben oltre l’avvicendamento alla direzione. Sembra che, finita l’avventura politica di Silvio Berlusconi, i vertici del Biscione si siano ricordati di essere stati degli editori, e abbiano ricominciato a comportarsi di conseguenza.
Appiattire tutta l’apparato informativo del gruppo – Mondadori compresa – sarà servito alla causa del padrone e sicuramente anche alle sue tasche, ma non ha certo giovato alla reputazione delle attività industriali.
Quando, agli inizi degli anni Novanta, Berlusconi conquistò la casa di Segrate, fece ai suoi collaboratori un discorso da vero editore: «Il mio scopo è di compiacere i lettori», disse, «indipendentemente dalle mie idee».
Quelle parole erano riferite a Panorama, allora ancora nel solco della sua tradizione di newsmagazine progressista e di sinistra: «Se questa linea è premiata dalle vendite, non sarò certo io a cambiarla anche se quasi sempre non mi trova d’accordo», prometteva il Cavaliere.

Poi l’editore è sceso in campo, è diventato un politico, come tale ossessivamente preoccupato dal consenso, e ha subito rinnegato quella filosofia imprenditoriale.
Prima la cacciata di Indro Montanelli dal Giornale, anni dopo quella di Chicco Mentana dal Tg5; nel mezzo il rapido stravolgimento di Panorama, appiattito sulle posizioni di Forza Italia e del suo capo.
E la progressiva sostituzione di giornalisti e manager del gruppo, sovente portatori di eccellente professionalità (basta pensare ai Freccero o ai Gori di Canale 5), con personale scelto in base al criterio della più assoluta fedeltà.

Ma così si governano gli apparati e le burocrazie, non le aziende che ambiscono nel loro settore alla leadership e a competere a livello internazionale.
Da questo punto di vista, il conflitto di interessi di cui era portatore il Cav ha funzionato all’incontrario. Il gruppo Fininvest avrebbe avuto tutt’altro percorso imprenditoriale se il suo proprietario non fosse stato anche presidente del Consiglio. Non foss’altro perché non avrebbe operato – come è stato negli ultimi vent’anni – in regime di quasi monopolio, ma avrebbe dovuto competere in termini di innovazione del prodotto.
Ora, venuto meno l’ombrello politico sotto cui allignava, Mediaset si trova improvvisamente alle prese con palinsesti usurati e format che mostrano la corda. Ricuperare non sarà impresa facile, tanto più se i vertici manageriali resteranno gli stessi.

Sarebbe un atto lungimirante se l’azionista facesse un passo indietro, affidando la gestione a nuovi manager. Via tutta la vecchia linea che ha goduto di rendite di posizione e certo non possiede lo stimolo per cambiare, a favore di nuovi dirigenti in grado di ridisegnare obiettivi e ambizioni aziendali alla luce dei profondi cambiamenti strutturali che stanno investendo il settore dei media.
La cacciata di Fede e le dichiarazioni di intenti che l’hanno accompagnata sono l’incipit di una giusta strada. Ma se Fininvest vuole sopravvivere in un mercato sempre più difficile e insidioso deve percorrerla in fretta e sino in fondo. Altrimenti meglio vendere lasciando spazio a chi ha dimostrato che il mestiere lo sa e lo vuole fare.
Paolo Madron (Lettera43)

LASCIA UN COMMENTO

Inserisci il tuo commento
Inserisci il tuo nome