Tira una brutta aria a Washington: la Casa Bianca vieta ai giornalisti l’ingresso alla Upper Press: la ragione addotta sarebbe quella di voler proteggere i materiali “potenzialmente sensibili” custoditi nella sala 140. In pratica, ai giornalisti viene inibito l’accesso all’ala Ovest, che si trova nei pressi dello Studio Ovale e, senza appuntamento, non potranno essere ricevuti dalla portavoce Karoline Leavitt né dagli altri funzionari della comunicazione.
In fondo, Donald Trump, non fa che comportarsi come uno dei sindaci dei più sperduti paesini italiani. O, se preferite, come il Ceo (sempre Ceo, mai ad o chissà che altro) di chissà quale aziendina italiana. Non parliamo, poi, di chi fa sport e, segnatamente, si occupa di pallone: guai ad alzare un dito, ti tolgono l’accredito. L’erezione di muri, piuttosto che di ponti, verso gli operatori della comunicazione è una costante in un Paese che, adesso, scopre quanto sia cattivo Trump perché fa ciò che, in Italia, si fa da anni. Si negano tutti, perché non dovrebbe negarsi l’uomo che (davvero) è il più potente del mondo?
Il pianto, greco, è senza lacrime. È un piagnisteo. Abbiamo costruito un mondo in cui l’informazione è un orpello, dove l’inchiesta è a senso unico e va delegittimata, dove non deve esistere un pensiero veramente difforme, magari pure controverso. Siamo nel Paese libero in cui chiedere un’intervista è permesso, ottenerla è un terno a lotto. E pure le domande, sia chiaro, vanno decise a monte. Non sia mai che a qualcuno venga in mente di criticare. La critica come democrazia arricchisce solo gli avvocati. Il problema non è che Trump chiuda la Upper Press. Il guaio è capire come sia iniziato questo processo e cosa fare, semmai, per contrastarlo. Passando, prima che dalla Casa Bianca, dai Comuni, dalle società. Anzi dalla società. Che ancora si picca di dirsi civile ma che, appena mette piede dentro qualche ovattata stanza dei bottoni, passa subito a chiudersi manco fosse sotto assedio.
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