STEFANO RODOTÀ: ECCO IL PERCHÉ DEI TAGLI ALL’EDITORIA E ALL’UNIVERSITÀ (IL MANIFESTO)

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Oltre 90 giornali di ogni orientamento rischiano di portare i libri in tribunale a causa dei tagli all’editoria. “I giornali come il manifesto – afferma Stefano Rodotà in un’intervista pubblicata da Il Manifesto – sono le vittime più fragili di una logica distruttiva che sta travolgendo tutto il mondo della cultura e del sapere critico: la politica dei tagli lineari. Una logica con cui la politica abdica al suo compito fondamentale che è esattamente scegliere, distinguere tra un’informazione che ha un’effettiva qualità da situazioni parassitarle che proprio chi dice di volere eliminare invece non sa o non vuole affrontare”.
“Tutte le scelte politiche sono giustificate dicendo che bisogna risparmiare. Ma quell’esigenza, attuata in modo indiscriminato, è diventata un attacco globale al sapere critico da qualunque parte provenga. Un attacco che non è casuale e che deforma la democrazia. Democrazia non è votare ogni tanto. E’ qualcosa di più: è moltiplicare gli strumenti di controllo nella società, dare a tutti gli strumenti per conoscere e partecipare alla vita comune”.
Per quanto riguarda il servizio pubblico radio-televisivo, “è ormai dimostrato che Tg1 e Tg5, su cui si forma l’opinione della maggioranza delle persone, di fatto non sono più un sistema informativo. Ci sono interi fenomeni concreti, di massa, non minoritari o di nicchia, che vengono nascosti. Penso alla Fiom ma anche al milione e mezzo di firme raccolte per l’acqua pubblica senza nemmeno un minuto di telegiornale pubblico. Ormai viene raccontato un paese completamente diverso da quello che esiste. Se chiude il manifesto, se si censura la Gabanelli non vengono spenti singoli giornali o giornalisti ma vengono censurati pezzi sempre più ampi di società finché la società stessa non è più rappresentata”.

“Oggi la selezione della classe dirigente la fa direttamente il mondo dell’impresa che, senza demonizzazioni, è strutturalmente portatore di conflitti di interesse. Se non altro perché la cultura di impresa non è la cultura dello stato. Però non c’è buona politica senza buona cultura. Puoi anche fare ministro un regista o un professore ma se hai impoverito tutti gli strumenti culturali ormai il canale tra politica e saperi è prosciugato”.

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