Doveva brillare come la stella del firmamento della sinistra, rischia di trasformarsi in un buco nero. La parabola di Renato Soru è di quelle che richiedono le cinture di sicurezza ben allacciate. Sparato come un missile nello spazio lunare della politica, s’è ritrovato senza carburante (i voti), sconfitto da una nave avversaria armata di raggio laser (Silvio Berlusconi) e senza neppure un vecchio Lem per fare l’atterraggio morbido. Risultato: un ritorno sulla Terra (ironia della sorte, nella sua Sardegna) segnato dal clangore della ferraglia. Crash. E ora?, si chiedevano a urne ancora calde i suoi adepti, interrogandosi sulla sorte dei mirabolanti piani del tycoon della Tiscali che avrebbe dovuto scalare la vetta del Pd e fare dell’Unità un grande giornale.
Immerso nelle rovine fumanti della caduta, Soru sulle prime aveva conservato l’aureola dell’imprenditore illuminato, ma già pochi giorni dopo il suo groppo in gola, gli occhi lucidi la sera della sconfitta e il suo silenzio sono divenuti un incubo per L’Unità e la Tiscali. Il Cavaliere aveva detto: “Soru è un fallito in tutto”. Di certo non naviga in buone acque. Il 19 marzo la Tiscali riunisce il suo consiglio d’amministrazione per approvare un bilancio annuale zavorrato dai debiti. Il 23 marzo L’Unità, se non trova nuovi capitali (e capitani), potrebbe cessare le pubblicazioni e portare i libri contabili in tribunale. Due date, pochi soldi da mettere sul piatto.
Il red carpet dell’”Unità“. Partiamo dal giornale fondato da Antonio Gramsci. Soru nel maggio 2008 firma l’accordo con la Nie (società editrice dell’Unità), in giugno perfeziona il contratto e si impegna a gestire il quotidiano con una fondazione. Quanto sborsa davvero non si è mai capito. “Non era giusto che il giornale di Gramsci e di Enrico Berlinguer, che ha rappresentato tanto nella storia del nostro Paese, fosse trattato come una merce qualsiasi” si limita a pontificare il neoeditore gonfio d’orgoglio.
Respinto l’ingresso della famiglia Angelucci, editori di Libero e Il Riformista, la gestione Soru parte in quarta. La vecchia guardia dell’Unità viene rasa al suolo: il direttore Antonio Padellaro viene fatto accomodare ed entra, sotto gli auspici di Walter Veltroni, una firma della Repubblica, Concita De Gregorio. Grandi progetti, pubblicità osé firmata da Oliviero Toscani, assunzioni. Stile red carpet. I giornalisti passano da una settantina a un centinaio, il formato viene clonato dal quotidiano free press E-Polis (inventato da Nichi Grauso). Squilli di tromba, si parte. Otto mesi dopo L’Unità vende 47 mila copie. Meglio della gestione passata (+10 per cento), ma insufficienti per raggiungere il pareggio dei conti.
Cuore a sinistra, portafoglio a destra. La partita doppia diventa un problema quando Soru perde la partita politica. Addio presidenza della Regione Sardegna. Impossibile la scalata al Pd. E L’Unità? È una fornace, va ricapitalizzata, ma Soru, e lo annuncia personalmente a Piero Fassino, anticipandogli il suo smarcamento, non ha intenzione di scucire più un solo euro. Figurarsi i 4 milioni che servirebbero per arrivare senza acqua alla gola al consiglio d’amministrazione fissato per il 23 marzo, lunedì, giorno di San Turibio di Mogrovejo, difensore degli indios e nemico dei conquistadores.
Nella redazione dell’Unità l’inquietudine che aleggiava dopo la sconfitta elettorale si è materializzata pochi giorni fa davanti ai piani dell’amministratore: serve capitale fresco, bisogna contenere i costi. Traduzione: non si cercano solo nuovi soci (le voci parlano di un ingresso di Carlo Feltrinelli, Fassino sta facendo appello al movimento cooperativo e all’Unipol), bisogna chiudere alcune redazioni, ridurre le pagine e tagliare i contratti a termine. Via la cronaca di Roma e quella di Milano, la redazione ambrosiana (che segue l’economia) si sposta nella capitale, a casa una ventina di giornalisti con contratto a termine, riduzione degli stipendi con l’applicazione di un contratto di solidarietà.
Un piano di lacrime e sangue (tutto da discutere) che si specchia nella profonda crisi del mercato editoriale, ma anche nella delusione politica di Soru e nei travagli del suo gioiello di un tempo, la Tiscali.
Tiscali e il gorilla game. L’avventura su internet comincia nel 1998. La Tiscali offre carte telefoniche prepagate, parte il mito della new economy e l’anno dopo il piccolo provider sardo si quota al Nuovo mercato. Scatta l’euforia irrazionale, capitalizzazione di borsa superiore a quella della Fiat. Soru usa la sua abilità finanziaria e gioca a quello che gli americani chiamano “gorilla game”: diventare più grande di tutti per abbattere i concorrenti. Fa shopping globale, inghiotte la Worldonline: la Tiscali dalla pianura campidanese si erge fra i titani del mondo.
Il sogno dura poco: nel 2000 la bolla di internet fa bum, la capitalizzazione crolla, la Tiscali diventa il titolo che fa la gioia dei trader più scaltri e i dolori dei piccoli azionisti che, dopo aver comprato ai massimi, si ritrovano spennati. Otto anni dopo l’azienda di Soru come Crono si mangia i suoi figli. Partono un lungo rosario di dismissioni e un taglio annunciato di 250 posti di lavoro su 850 in Italia.
Oggi la Tiscali si dibatte in un mercato travolto dalla crisi e concentra i suoi sforzi su Regno Unito (68 per cento dei ricavi) e Italia (30 per cento dei ricavi). Secondo uno studio societario firmato dal Citigroup il 21 gennaio scorso, la società “brucia ancora cassa”; lo conferma il resoconto intermedio di gestione: “Al 30 settembre 2008, il gruppo Tiscali può contare su disponibilità liquide per 34,4 milioni di euro, a fronte di una posizione finanziaria netta alla stessa data negativa per 556,7 milioni di euro”.
Secondo gli analisti del Citi, “il nuovo business plan non è convincente”: è simile a quello di altre aziende del settore e “non c’è un chiaro vantaggio competitivo, se si escludono i prezzi bassi”.
Il tentativo di cedere il ramo delle attività inglesi alla BSkyB di Rupert Murdoch si è arenato di fronte al crollo delle borse e alla svalutazione del cambio con la sterlina. Il debito netto calcolato dagli analisti del Citi è di circa 605 milioni di euro, il ramo inglese vale 400 milioni, quello italiano 300 milioni. Risultato: il valore dell’attività Tiscali è di circa 100 milioni, cioè 15 centesimi di euro per azione.
La Banca Imi in novembre mostrava più fiducia: “Il business plan presentato dall’amministratore delegato Mario Rosso potrebbe generare positive sorprese”.
Intanto il vertice societario ha subito due perdite. Mauro Mariani, uno dei pionieri dell’azienda, l’11 novembre 2008 ha lasciato l’incarico di amministratore delegato della Tiscali Italia. E qualche giorno fa è uscito il consigliere Arnaldo Borghesi, esperto di finanza straordinaria. Ufficialmente nessun dissidio con Rosso, ma la sua sostituzione con Gabriele Racugno, il fiduciario del blind trust creato prima del voto per evitare le accuse di conflitto di interessi, è il segnale che Soru si sta blindando.
La Tiscali in Sardegna è una presenza importante, nella sede cagliaritana di Sa Illetta c’è preoccupazione. Soru giustamente si è sempre vantato di aver creato nell’isola centinaia di posti di lavoro e ora, ironia della sorte, il neopresidente della regione Ugo Cappellacci potrebbe essere costretto a occuparsi non solo della crisi della chimica, ma anche di quella della Tiscali.
In questo scenario all’Unità si interrogano: abbiamo respinto gli Angelucci, ma davvero era meglio Soru?