Il silenzio è d’oro, come l’ascolto

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E2KJ7M students looking into devices at school

Non si ascolta più. Nell’immenso rumore quotidiano, nel frastuono di suoni e intrusioni acustiche che vengono dal mondo reale ma – oggi – ancor più da quello virtuale, dalla rete, dal web e dalle mille “app” sfornate ogni giorno dai giganti di internet, la capacità (e la volontà) di ascoltare si sta sempre più perdendo

Lo dimostrano recenti ricerche universitarie: una, di particolare interesse, arriva da Kansas City, dove l’equipe guidata da Laura Janusik ha effettuato uno studio sull’ascolto su un campione di studenti, e confrontato i dati con un’analoga indagine di trent’anni fa. Il crollo dell’ascolto è verticale, passato dal 53 per cento a poco più del 20, in termini di tempo dedicato dai giovani ad “ascoltare”. Una delle ragioni viene individuata proprio nelle ‘magie’ della rete: non ascolto più, caso mai mi dedico ad altro smanettando sullo smartphone, perché tanto poi posso recuperare la “conoscenza” proprio navigando via internet. E’ quanto sta succedendo con la lettura: meno libri, più e-book via tablet, con un sensibile, progressivo calo nella qualità dell’apprendimento.

Un’altra studiosa statunitense, la texana Barbara Miller, esperta di comunicazione, ha individuato i quattro cardini dell’ascolto, racchiusi nell’acronimo RASA: Receive, ricevere, Appreciate, apprezzare, Summarising, riepilogare, Asking, chiedere. Quante persone, oggi, possono francamente sostenere di rispettare anche un solo “comandamento” quando dialogano (meglio, monologano) con gli altri?

A fotografare in modo surreale – e artistico – questa inquietante realtà, ci ha pensato, poche settimane fa, a ridosso alla vigilia di Pasqua, un gruppo emergente di film maker campani, “Casa Surace”, al suo attivo già molti fulminanti movies da 3-4 minuti. E con “L’Ultima Cena” hanno fatto boom, superando addirittura i 10 milioni di visualizzazioni. Ecco cosa commenta lo psichiatra e scrittore Sarantis Thanopulos: “Nel video, diretto da Simone Petrella, Gesù è circondato da discepoli che, persi nei loro smartphone, tablet e pc, non prestano attenzione al suo discorso di commiato. Gesù, spazientito, li apostrofa. ‘Ma avete capito che me ne vado? Che vado dove non prende?’. Il video ha creato una divisione netta tra chi lo ha apprezzato e chi l’ha giudicato invece blasfemo. In realtà esso prende di mira l’incapacità di essere in relazione con gli altri e con i propri affetti, perfino nel momento più solenne delle separazioni. (…) Fa vedere l’ossessione di collegamento che sostituisce la paura di ‘perdersi di vista’ (non vedere la persona cara e non essere visti da lei)”.

Abbiamo chiesto un parere al padre del regista, Claudio Petrella, per anni psichiatra nelle strutture pubbliche napoletane, allievo prediletto del grande basagliano Sergio Piro. L’uso ormai compulsivo, per molti, di internet e di tutti i suoi derivati, rappresenta il bisogno di avere continue gratificazioni e conferme, è come lo shopping compulsivo. E’ una forma di difesa dalla depressione nella quale rischiamo sempre più di cadere. E il non ascolto è una delle manifestazioni più significative: io non sono più in grado di relazionarmi con gli altri se non in mondo mediato, virtuale. Io non guardo più l’altro negli occhi, non sento le sue parole, preferisco specchiarmi nello smartphone”.

Consigliamo a tutti la lettura di uno stupendo racconto di Italo Calvino, una delle sue ultime gemme, “Un re in ascolto”, scritto nel 1982. Doveva far parte di una cinquina, dedicata proprio ai cinque sensi, si fermò a tre: olfatto, gusto e, appunto, udito, che uscirono racchiusi in “Sotto il sole giaguaro”. Il re divenne un libretto d’opera, musicato da Lucia Berio e presentato a Salisburgo nell’84. Vi si narra di un re che decide di vivere perennemente sul suo trono, per tenere sempre sotto controllo la situazione, ascoltare ogni fruscio, perché “qui le mura hanno orecchi. La corte pullula di nemici”. Ma improvvisamente sente una voce femminile meravigliosa, che lo rapisce, e poi non riuscirà più a ritrovare, perso tra mille altri rumori. Ecco un passaggio da incanto: “Ma troppi suoni si frappongono, frenetici, taglienti, feroci: la voce di lei sparisce soffocata dal rombo di morte che invade il fuori, o forse risuona dentro di te. L’hai perduta, ti sei perduto, la parte di te che si proietta nello spazio dei suoni ora corre per le vie tra le pattuglie del coprifuoco. La vita delle voci è stata un sogno, forse è durata solo pochi secondi come durano i sogni: mentre fuori l’incubo permane”. Verrà detronizzato, quel re, condotto nei sotterranei e nelle prigioni dove sono rinchiusi i suoi ‘prigionieri di stato’, sentirà quella voce soave cantare per il suo ‘successore’, riuscirà a fuggire e a correre via, senza più trono, verso la libertà.

Abbiamo ritrovato un saggio del giornalista e scrittore Stefano Bartezzaghi, dal significativo titolo “Ecco perché nessuno ascolta più nessuno”. Il padre fondò la celebre Settimana enigmistica e da esperto linguista ed enigmista anche lui, Bartezzaghi junior comincia subito con un anagramma che racconta più di tante storie: in inglese, il verbo ascoltare è to listen, e – guarda caso – listen ha un suo preciso anagramma, silent, silenzioso. E prosegue: La realtà è che mentre qualcuno parla pensiamo a cosa dire noi; oppure lo interrompiamo per rispondere al problema che ci sta ponendo prima di averlo capito bene, o ascoltiamo ‘dall’interno di una sorta di bunker che abbiamo messo anni a costruire e di cui però non siamo ancora consapevoli’, come dice Julian Treasure, che si occupa di ascolto consapevole”.

Ancora: “Ci siamo forse abituati a comunicazioni unilaterali? A giudicare dalle famose intemperanze che si manifestano nel web si ha la sensazione che chi scrive commenti ingiuriosi non abbia proprio l’esatta percezione di essere letto, almeno finché non gli arriva una sacrosanta querela”. E poi: “E’ che la gente si è abituata a parlare da sola al televisore e dire ‘quanto sei cretino’ a quello che si pensa sia un ectoplasma privo di orecchie: lo aveva già intuito negli anni Ottanta il Woody Allen che faceva intervenire Marshall McLuhan in persona in una conversazione privata che lo concerneva (Io e Annie), o che faceva interagire gli attori sullo schermo con la spettatrice Mia Farrow fino a farla entrare nella storia (La Rosa purpurea del Cairo). Oggi a teatro gli spettatori parlano, commentano, anticipano, rispondono al telefonino e non sembrano assolutamente consapevoli che lì a loro è richiesto di mantenere una posizione di puro ascolto. Ma non solo pensano di essere invisibili e inaudibili quando rompono le palle a una platea intera, e agli attori stessi; non hanno nemmeno la percezione di quanto l’ascolto attento che negano contribuirebbe invece alla riuscita dello spettacolo, della conferenza, della lezione”.

Prosegue l’analisi di Stefano Bartezzaghi: “In una conversazione è facile capirlo: l’interlocutore che guarda l’orologio, che riceve un sms e lo legge e risponde dicendoti ‘parla, parla, ti ascolto’, che ci domanda qualcosa che avrebbe dovuto aver ascoltato due minuti fa, non solo non ci piace. Ci frustra nel desiderio, o nella necessità, di una conversazione che ci porta qualcosa, anche la mera sensazione di aver fatto passi avanti nel discorso”.

A questo punto, non può mancare una sorta di gag, quella della coppia che si lancia frecciatine non proprio allo zucchero. La moglie brontolona: “Ma quando parlo, almeno mi ascolti?”, e il sessantenne: “Già ti lascio parlare, ora devo anche ascoltarti?”. Così commenta Bartezzaghi: “nel suo sfregiante estremismo, la battuta sembra però riassumere l’atteggiamento comune a molti uditori nazionali, oggi: parla, parla pure, pensala così”.

Bla bla, ascolti, fiumi di parole quasi sempre al vento. Oggi, in tivvù, nei talk, gli ormai nauseanti confronti tra politici. Non ha mezzi termini, Bartezzaghi: “In Italia, le logomachie dei talk-show e più recentemente degli streaming (quello fra Grillo e Renzi resta un culmine) dimostrano con un’evidenza sconsolante come la comunicazione sia vissuta in termini di quantità – occupazione di spazio e tempo, annichilimento dell’agibilità locutoria altrui – piuttosto che di qualità. Ed è paradossale che in un discorso pubblico dominato da concetti come ‘audience’ (uditorio, da ‘udire’) e ‘share’ (condivisione), la vittoria non si consegua con i gol davvero realizzati. Basta il possesso palla. Cosa viene rimproverato, dagli oppositori interni e dagli esterni a chi è arrivato in posizione apicale e ai suoi cerchi magici? La cantilena è sempre quella: ‘Non ascolta più, se mai l’ha fatto’. Ora si tratta di Matteo Renzi ma gli archivi rigurgitano di lamentele verso chiunque, in Italia, abbia il raggiunto il potere”.

Quale la possibile terapia? Che percorso intraprendere per disintossicarci da tanti inquinanti reali e virtuali? Come ascoltare “the sound of silence” in santa pace? Occorre una sana ecologia della comunicazione, auspica Bartezzaghi. “Un’ecologia della comunicazione vorrebbe che l’ascolto si spartisse la qualità di principale virtù ex aequo con la responsabilità. Da genitori, partner, professori, colleghi, amici, governanti assumere il dovere di ascoltare e, assieme, quello di rispondere. ‘Te sento e nun te sento’, dice il dio Aniene di Corrado Guzzanti al suo super-divino padre. E la verità è che siamo governati dall’attivismo, dall’impazienza, dalla frenesia: e anche dalla sordità”.

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