La riforma dell’editoria è ormai richiesta da tutte le parti, ma si continua, oggettivamente, ad andare avanti con norme sporadiche che iniettano risorse nel settore, senza però risolvere i problemi strutturali che lo stanno affossando.
La domanda di informazione è cambiata, la carta è diventata quasi un residuo bellico, i giornali sembrano aver perso senso. Queste sono le principali osservazioni di chi ritiene che, rispetto al passato, sia arrivato il momento di mettere una pietra sopra. Meglio se tombale. Ma così non dovrebbe essere.
La democrazia è un bene complicato e anche costoso da mantenere. Sarebbe molto più semplice lasciare che a comandare sia il mercato, abbandonando tutto al mare magnum delle grandi piattaforme digitali, che nel gran bazar dei nostri dati hanno trovato la formula per trasformare la pietra in oro.
Il problema, come spesso accade, sono le risorse. E allora come si fa a sostenere un settore, quando molti dicono: “Chiudono gli ospedali”, “Non si arriva a fine mese”, “Sono soldi dei contribuenti”, “Piove, governo ladro”? Manca solo: “meglio un uovo oggi che una gallina domani” per completare la fiera delle banalità.
La risposta è rimandata alla politica, che dovrebbe finalmente scegliere quale futuro immaginare per i propri cittadini, valutando il peso di un’informazione di qualità rispetto a una, certamente più economica, prodotta secondo le logiche del mercato digitale.
Il presidente della Fieg, Andrea Riffeser, ha recentemente proposto che la web tax — ossia la tassa che le piattaforme dovrebbero versare al fisco italiano — venga destinata al settore dell’editoria. Una richiesta legittima, ora passata all’esame della politica. Anche se l’evoluzione delle trattative sull’equo compenso che le piattaforme dovrebbero riconoscere ai produttori di contenuti, e la sorte della norma prevista dall’articolo 1 della legge 26 ottobre 2016, n. 198, sul finanziamento del fondo per il pluralismo e l’innovazione, mai attuata e ormai sparita dai radar del Governo, lasciano parecchi dubbi sull’efficacia di norme imposte da uno Stato ad altri Stati.
Perché le grandi piattaforme digitali sono diventate attori politici globali. E grazie ai dati, oggi detengono un potere spesso superiore a quello dei governi nazionali.