LA STRUMENTALIZZAZIONE DEL DIRITTO DI CRONACA E CRITICA GIORNALISTICA DA PARTE DELL’EDITORE

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Con la sentenza del 27 luglio 2011, n. 890 il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere ha condannato, in primo grado, l’editore di un quotidiano, di una serie di delitti di estorsione, uno dei quali in concorso e riunione con l’allora sindaco della città, perpetrati, con la messa in atto di una campagna diffamatoria a mezzo stampa, in danno di imprenditori e politici operanti nella provincia in cui il giornale veniva maggiormente diffuso.

Il reato di diffamazione a mezzo stampa è disciplinato dall’art. 595 cod. pen., ai sensi del quale chiunque, comunicando con più persone, offende l’altrui reputazione, è punito con la reclusione fino a un anno o con la multa fino ad euro 1.032,00. Se l’offesa consiste nell’attribuzione di un fatto determinato, la pena è della reclusione fino a due anni, ovvero della multa fino ad euro 2.065,00. se l’offesa è recata col mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità. Ai sensi dell’art. 11, legge 8 febbraio 1948, n. 47, per i reati commessi col mezzo della stampa sono civilmente responsabili, in solido con gli autori e fra di loro, il proprietario della pubblicazione e l’editore.

La diffamazione a mezzo stampa rappresenta, quindi, un’ipotesi di reato a tutela dell’altrui reputazione e, nel contempo, un illecito civile che impone al responsabile del fatto l’obbligo di risarcire il danno.
Per poter capire quando ricorre la fattispecie della diffamazione a mezzo stampa la giurisprudenza ha indicato, fin dagli anni ottanta, i requisiti ed i limiti del diritto di cronaca, idonei ad escludere la punibilità noti come “decalogo del buon giornalista”. La corte di cassazione ha statuito che il diritto di cronaca e critica è legittimo allorquando ricorrono le seguenti condizioni: a) utilità sociale dell’informazione; b) verità oggettiva; c) continenza ovvero forma civile dell’esposizione.
Non è certo la semplice curiosità del pubblico a poter giustificare la diffusione di notizie sulla vita privata altrui, perché è necessario che tali notizie rivestano oggettivamente interesse per la collettività.

Nel diffondere una notizia, inoltre, è necessario che il giornalista accerti le verità del fatto raccontato nell’articolo. Inoltre, laddove vanga dimostrata, dal giornalista, la verità putativa del fatto (che ricorre quando il giornalista dimostri in giudizio la involontarietà dell’errore commesso, l’avvenuto controllo della fonte e la sua attendibilità), il giornalista non viene punito.
Una interessante pronuncia della suprema corte ha, al riguardo affermato La scriminante putativa dell’esercizio del diritto di cronaca è ipotizzabile quando, pur non essendo obiettivamente vero il fatto riferito, il cronista abbia assolto all’onere di esaminare, controllare e verificare quanto oggetto della sua narrativa, al fine di vincere ogni dubbio, non essendo sufficiente l’affidamento ritenuto in buona fede sulla fonte. In realtà la cronaca giudiziaria è lecita quando diffonda la notizia di un provvedimento giudiziario in sé, ovvero riferisca o commenti l’attività investigativa o giudiziaria, non lo è invece quando le informazioni desumibili da un provvedimento giudiziario vengano utilizzate per proprie ricostruzioni od ipotesi giornalistiche, autonomamente offensive; in tal caso il giornalista deve assumersi direttamente l’onere di verificare le notizie, senza poter esibire il provvedimento giudiziario quale sua unica fonte di informazione e di legittimazione. Perché possa configurarsi l’elemento della verità è, pertanto, importante che il giornalista riporti i fatti in maniera completa.
La continenza, infine, rappresenta la correttezza formale del linguaggio e delle espressioni usate dal giornalista. secondo la giurisprudenza Il limite della continenza espositiva, invero, può, e deve dirsi superato, per quanto si è detto, dalla oggettiva capacità denigratoria delle espressioni, perché non necessarie (sovrabbondanti) alla esposizione del fatto (cronaca) o al commento del medesimo (critica) e, più precisamente, nella ipotesi in cui il linguaggio risulti pretestuosamente adottato per una gratuita aggressione ad personam.

La fonte normativa della responsabilità civile sia dell’autore dell’articolo, che del direttore responsabile, nelle ipotesi di diffamazione per il tramite della stampa periodica, è l’art. 185 cod. pen., ai sensi del quale ogni reato obbliga alle restituzioni, a norma delle leggi civili. Ogni reato,
che abbia cagionato un danno patrimoniale o non patrimoniale, obbliga al risarcimento il colpevole e le persone che, a norma delle leggi civili, debbono rispondere per il fatto di lui.
La responsabilità civile, inoltre, si estende nei confronti del proprietario e dell’editore secondo quanto disposto dall’art. 11 della legge 8 febbraio 1948, n. 47 (legge sulla stampa), che stabilisce per i reati commessi col mezzo della stampa, sono civilmente responsabili, in solido con gli autori del reato e tra di loro, il proprietario della pubblicazione e l’editore.
Accertata l’illiceità della pubblicazione, in sintesi, sussiste un obbligo solidale di risarcimento del danno nei confronti dell’autore della pubblicazione lesiva, da parte del direttore responsabile e dell’editore in quanto del fatto illecito devono rispondere tutti coloro che hanno avuto parte nella pubblicazione e nella diffusione dello scritto diffamatorio.
Tornando al caso in esame, l’editore sfruttando il proprio ruolo di dominus dell’unico quotidiano a diffusione provinciale, avrebbe ordito un vero e proprio sistema estorsivo-ritorsivo basato su un meccanismo consolidato composto di due fasi: una prima in cui veniva individuato il politico o l’imprenditore nei confronti del quale iniziare una campagna diffamatoria a mezzo stampa finalizzata ad ottenere, con l’ausilio di terze persone, un incontro con l’editore; una seconda nella quale l’editore obbligava la vittima, ad addivenire ad un accordo commerciale quale condizione imprescindibile per ottenere la cessazione degli attacchi giornalistici. La divulgazione di tesi diffamatorie nei confronti delle vittime veniva compiuta in maniera assolutizzante, cioè tale da non lasciare il minimo spazio al punto di vista della vittima, in spregio al parametro della completezza dell’informazione, enunciato tra i principi dettati dalla Carta dei doveri del Giornalista come essenziale paradigma di contemperamento tra la libertà di informazione ed il rispetto dei diritti della persona.

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