LA PROPRIETÀ INTELLETTUALE? E’ UN FURTO

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Chissà se Roberto Roversi, quando nel 1969 fece al ciclostile la prima tiratura delle Descrizioni in atto, sapeva che la sua battaglia contro la proprietà intellettuale, un quarantennio dopo sarebbe diventata questione all’ordine del giorno. Oggi, infatti, la disputa tra copyright e copyleft, ovvero tra fautori dell’estensione di brevetti e diritti e loro abolizionisti, è dibattutissima. E non riguarda soltanto i colossali affari legati ai brevetti farmaceutici, ma anche la produzione e diffusione di CD, DVD, libri, per arrivare alla trasmissione P2P di musica e film: ovvero, tutto quanto va sotto il nome di produzione intellettuale.
Tra chi se ne è occupato in modo sistematico ci sono gli economisti Michele Boldrin e David K. Levine, che nel saggio Abolire la proprietà intellettuale, affrontano la questione da un punto di vista chensi potrebbe definire riformista. Partendo dall’invenzione del vapore, il duo dimostra come l’imposizione del brevetto ottenuto da James Watt ritardò la rivoluzione industriale di due decenni: fu il primo, eclatante esempio, sostengono, di un monopolio creato artificiosamente per tutelare l’interesse economico di pochi a danno di molti.
Mutatis mutandis, quello che accadde ai tempi del vapore si replica oggi: la scure censoria dell’Fbi si è abbattuta su “Megaupload”, siti di file sharing che sono stati chiusi, replicando, dieci anni dopo, la battaglia – oggi da tutti ritenuta oscurantista – dei colossi della discografia americana che trascinarono in tribunale i giovani Sean Parker e Shawn Fanning ottenendo l’imposizione dei sigilli su “Napster”, il sito che aveva inaugurato l’epoca del liberoscambismo di musica on line.
Davvero viviamo in tempi contradditori: se il gesto di Roversi, replicato vent’anni dopo dalla coppia Sanguineti-Pirella, che ciclostilò I’Antilibro, potrà apparire desueto e anacronistico, è pur vero che mentre l’industria vetero gutenberghiana continua ostinatamente a imporre il proprio imprimatur sulla distribuzione dei beni immateriali, in rete sarebbe già tutto pronto per garantire una circolazione pressoché gratuita dei medesimi, inverando non solo l’ingenua lotta di Roversi, ma anche un sacro dogma dell’economia liberista o, letta altrimenti, una specie di esproprio digitai proletario. In effetti, economisti del calibro di Smith e di Ricardo avevano già sostenuto che ogni tipo di restrizione al libero commercio sarebbe stata dannosa per la ricchezza delle nazioni: nei secoli seguenti, l’abbandono delle politiche pro-tezionistiche avrebbe dato loro ragione.
Ma oggi, avvertono Boldrin e Levine, assistiamo a un singolare paradosso: mentre la battaglia per il libero commercio dei beni materiali sembra ormai vinta, crescono vieppiù le pressioni per rendere più forte la protezione della proprietà intellettuale. E sarebbe proprio questa protezione, fatta di brevetti e diritti, a consentire non solo a “qualcuno di vendere a un prezzo alto grazie a protezioni legali, senza più fare aluno sforzo per cercare metodi migliori e più economici di produzione”, ma a limitare l’innovazione e l’ingegno. Che fare dunque? I due economisti optano per una soluzione di tipo riformista: non un colpo di spugna, ma una graduale restrizione del campo di dominio dei brevetti, allo scopo di faci-litare la libera circolazione delle idee, al pari di quella dei beni materiali.
Ma, replicheranno i maligni, se un’invenzione non brevettata, o una canzone non tutelata dal diritto, può essere copiata, che ne sarà dell’incentivo alla creazione? La risposta di Boldrin-Levine sembrerebbe semplicistica: anche senza protezione intellettuale, argomenta il duo, gli U2 avrebbero comunque guadagnato milioni a palate fra concerti e merchandising di ogni tipo. Eppure non è così banale l’argomento: fra i tanti esempi citati, oltre a quello di Watt, c’è anche quello dell’industria farmaceutica italiana, che fu fiorente fino al 1978, l’anno in culla Corte Costituzionale ammise i brevetti sui farmaci. E poi, per restare nell’orticello di casa nostra, si pensi al collettivo bolognese dei Wu Ming, i cui libri, disponibili da anni in rete, non solo non hanno danneggiato, ma hanno favorito la vendita in libreria.
Empiti polemistici a parte, non si tratterebbe, in sostanza, di abolire i diritti d’autore o i brevetti, ma di consentire un accesso più libero ai beni dell’intelletto. Dopo tutto, come dimostrano i Wu Ming, si tratta pur sempre della cara vecchia tecnica promozionale: che il nome circoli e il ritomo è garantito.

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