Già al terzo giorno delle proteste che hanno visto la centralissima Piazza Taskim ad Instanbul come teatro della resistenza dei manifestanti, il primo ministro del Paese della Mezzaluna aveva dimostrato la sua contrarietà ai social media intesi come una sorta di minaccia nei confronti della la società. Secondo il leader turco, in particolare Twitter rappresenterebbe uno strumento dannoso e non farebbe altro che alimentare il dissenso, in particolare della fascia più giovane.
Da qui in arrivo misure restrittive nei confronti del noto portale dei “cinguettii”. Il primo passo, nelle intenzioni di Erdogan, quello di procedere all’identificazione degli autori dei post poco graditi. In virtù di questa necessità il governo turco starebbe cercando l’appoggia dei vertici di Twitter. La proposta avanzata è quella di aprire un vero e proprio presidio dell’ufficio del cinguettante social in Turchia, richiesta che a quanto pare è stata volutamente ignorata dai rappresentanti del micro blogging.
Intanto il governo non ha arrestato la sua corsa alla caccia al colpevole, tanto che il Ministro dei Trasporti e delle Comunicazioni, avrebbe identificato e stilato una black list di 35 persone riconosciute tra i leader della sommossa online. E non sono mancati i primi fermi. Il rischio maggiore, tuttavia, è che le restrizioni si inaspriscano ancora di più fino al punto di arrivare al totale divieto dei social network all’interno del paese.
Non sarebbe questo, purtroppo, il primo caso di embargo delle piattaforme di condivisione.
Russia, Iran, Vietnam e Lettonia sono, infatti, i paesi in cui l’influenza governativa è tale da soffocare l’emergere dei social. E non va meglio in Cina, dove in alcune zone Facebook è del tutto abolito. Insomma la mappa geografica delle limitazioni ai social si espande a macchia d’olio e questo dimostra quanto i network siano temuti da quanti vogliono tappare le bocche e tarpare le ali delle nuove leve.
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