CASO SALLUSTI, LA CASSAZIONE: «HA MENTITO, È RECIDIVO, MERITA IL CARCERE». IL DIRETTORE DEL GIORNALE: «CHE VENGANO A PRENDERMI»

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All’indomani del passaggio del ddl diffamazione dalla commissione Giustizia all’Aula del Senato, scoppia la polemica tra i magistrati e l’ex direttore di Libero Alessandro Sallusti condannato a 14 mesi di reclusione per diffamazione aggravata e omesso controllo. Per la Cassazione: il giornalista lombardo «è un delinquente recidivo, merita la galera». Dura la replica di Sallusti: «Non ho mai avuto una condanna penale. Non si gioca con la vita delle persone».
A scatenare la “querelle” sono state le motivazioni della sentenza di conferma della condanna a Sallusti rese note, ieri mattina, dalla Suprema Corte, subito dopo aver notificato, il 19 ottobre, l’ordine di arresto ai danni dell’attuale direttore de Il Giornale.
Vale la pena di riassumere la storia. Nel febbraio del 2007 su Libero viene pubblicato un articolo, firmato con lo pseudonimo Dreyfus (che poi si scoprirà essere di Renato Farina, deputato Pdl e giornalista radiato dall’Ordine), in cui si critica aspramente la decisione di un giudice tutelare di permettere (e non di ordinare) l’aborto ad una ragazzina tredicenne. Quest’ultima, in seguito al tragico evento, patì enormi sofferenze psicologiche. Un fatto che scatenò la stangata iperbolica di Dreyfus, proprio dalle colonne di Libero: «Ci vorrebbe la pena di morte per giudici e genitori che hanno ordinato l’aborto».
Il giudice si è sentito diffamato e ha querelato l’anonimo estensore della nota e, a ruota, il direttore del giornale. Ne è nata una causa trascinatasi per alcuni anni. E infine la condanna. Da una sanzione pecuniaria si è poi passati, in secondo grado (dopo l’appello di un magistrato), a 14 mesi di galera, senza condizionale, e ad una sanzione (tra multa e risarcimento danni) di circa 35 mila euro. Insomma: una bella mazzata per Sallusti. Che ha visto così materializzarsi, per la prima volta in vita sua, lo spettro del carcere. Salvo poi vedersi “sospesa” la pena, almeno fino al prossimo 26 ottobre. Sì, perché entro quella data la sorte del giornalista lombardo dovrà comunque essere decisa: o ci sarà per lui l’accompagnamento in carcere, oppure l’affidamento ai servizi sociali. Soluzione, quest’ultima, che Sallusti ha sdegnosamente rifiutato dicendosi pronto ad accettare ciò che il destino gli serberà quanto anche fosse la prigione.
Ma l’Italia, si sa, è pur sempre l’Italia. E reputandosi una nazione libera, ha iniziato a interrogarsi: può permettersi un Paese come il nostro, di mandare un giornalista in galera? Per tutta risposta il Parlamento si è dato da fare per modificare una vecchia legge del 1948. La stessa che, una volta applicata, è poi costata la condanna a Sallusti. Tempo pochi giorni e, mentre ancora l’inchiostro della sentenza si stava asciugando, è arrivato un ddl che oggi, dopo, quasi un mese di lavori in commissione Giustizia del Senato, è atteso all’esame dell’Aula di Palazzo Madama. Ma oggi è arrivata anche la motivazione della sentenza. Senza “peli sulla lingua” la Suprema Corte ha affermato che «Sallusti merita la condanna a 14 mesi per la sua spiccata capacità a delinquere, dimostrata da tanti precedenti, e dalla gravità della campagna intimidatoria e intollerante condotta nei confronti del giudice (…), dei genitori e della ragazzina 13. La notizia conteneva falsità e non c’è nessun riconoscimento per il diritto a mentire. Quindi il carcere, pur essendo una misura eccezionale, per Sallusti è legittimo».
Apriti cielo. L’ex direttore di Libero si è infuriato. E ha replicato pan per focaccia ai giudici della Cassazione: «Non sono un delinquente. Non ho mai avuto una condanna penale. Il presidente della Suprema Corte dovrà rispondere anche a mio figlio. Spero che venga cacciato. La Procura, se non è vigliacca, deve avere il coraggio di venirmi a prendere, anche subito. Non si gioca con la vita delle persone». E dire che paradossalmente, i giudici hanno condannato Sallusti proprio perché hanno creduto che fosse stato l’articolo pubblicato sul suo giornale a “giocare” con la vita delle persone.
In ogni caso il Pdl si è schierato dalla parte del direttore. Per Fabrizio Cicchitto, deputato del Pdl, «la sentenza è un monumento politico di parte». Ma la cosa “ironica” è che anche gli altri partiti sono favorevoli ad eliminare il carcere per il giornalista.
Quindi una sentenza di parte. Ora il problema è capire: di parte, ma per chi?

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