AIUTI PUBBLICI ALL’EDITORIA: L’ITALIA NON È UN’ANOMALIA. LO DICE L’UNIVERSITÀ DI OXFORD

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I contributi pubblici che lo Stato italiano eroga ogni anno all’editoria per permettere la sopravvivenza di testate che altrimenti dovrebbero chiudere e per tutelare quella che non è una merce da mettere sul mercato ma un diritto del cittadino tutelato dalla Costituzione, ovvero l’informazione, viene spesso additata come un’anomalia in Europa e nel mondo. In realtà non è così. Anzi, il finanziamento pubblico ai giornali, sotto diverse forme, esiste in molti Paesi. Lo dimostra, da ultimo, uno studio del 2011 del Reuters Institute for the study of journalism dell’università di Oxford che ha preso in esame i diversi tipi di aiuti che i giornali ricevono in Finlandia, Francia, Germania, Italia, Regno Unito e negli Stati Uniti.
Secondo il Rapporto “Public Support for the media, a six-country overview of direct and indirect subsidies” – che di seguito pubblichiamo – lo stato più generoso è la Finlandia (elargisce 59 euro annui per abitante), seguito da Francia (20), Gran Bretagna (12), Germania (6,4) e Stati Uniti (2,6). L’Italia è al terzo posto ma purtroppo ha un ritorno irrisorio in termini di nuovi lettori. Non è una novità, infatti, che nel nostro Paese i lettori sono davvero scarsi. Siamo all’ultimo posto nella graduatoria per copie vendute ogni 1.000 abitanti: 103. In Finlandia sono 483, in Francia 152, in Germania 283, nel Regno Unito 307 e negli Usa 200.
Dal rapporto emerge che la Germania ha speso il 40% di soldi in meno dell’Italia in aiuti pubblici alla stampa, ma i giornali tedeschi hanno raggiunto quasi il triplo dei lettori di quelli italiani. In Germania, inoltre, l’Iva destinata ai giornali non è del 19% come per le altre imprese, ma del 7%. In Italia l’imposta è invece al 4%.
Il finanziamento pubblico negli altri Paesi europei, non è destinato solo alla stampa, ma a tutto il mercato dei media, in un contesto che vede la distribuzione della raccolta pubblicitaria egualmente divisa tra i differenti mezzi di comunicazione e non, come accade in Italia, a quasi esclusivo vantaggio della televisione.
Anche nella liberista Gran Bretagna, paladina del principio di non interferenza dello Stato nel mercato, il governo non è stato insensibile alle necessità dei media. Solo nel 2008 la stampa inglese ha ricevuto 594 milioni di sterline in contributi indiretti, cioè in agevolazioni fiscali.
Un confronto tra il sistema italiano di finanziamento pubblico ai giornali e quello europeo è stato fatto nel 2011 anche dall’Istituto di economia dei media (Iem) della Fondazione Rosselli.
«Il contributo statale ai giornali esiste in molti Paesi europei, sotto forma di contributi diretti e indiretti. Dalla Francia alla Svezia, dal Belgio alla Germania», ha detto Bruno Zambardino, esperto di studi economici nel settore dei media e coautore dell’indagine Iem. «Ma i criteri con cui vengono assegnati i sussidi negli altri Paesi europei, per esempio in Francia, però sono diversi dai nostri: si premia la capacità di innovazione di un’impresa editoriale, la buona occupazione, c’è un sistema più severo di valutazione dell’impatto generato da quell’investimento pubblico e c’è una crescente attenzione per la produzione di contenuti online».

Nel 2011, Parigi ha costituito un fondo di 20 milioni di euro per sovvenzionare le start up giornalistiche digitali. «Si chiama Digital only», ha spiegato Zambardino, «e rientra nel fondo pubblico per l’editoria. Anche in Catalogna, in Spagna, c’è un’attenzione particolare per gli editori digitali: i due terzi del fondo di 8 milioni che la Regione autonoma ha messo a disposizione per finanziare i giornali sono destinati all’informazione online». In Italia invece il primo problema è la trasparenza. «È difficile ottenere i dati sugli investimenti che lo Stato fa nell’industria editoriale in generale», ha sottolineato ancora Zambardino, «e in quella giornalistica in particolare. Le informazioni sono frammentate e parziali. Per esempio i contributi indiretti ai giornali sono quasi impossibili da censire».
Tra questi ultimi, fino alla loro abolizione nel 2010, l’ammontare più rilevante è stato rappresentato dalle tariffe agevolate per la spedizione dei prodotti editoriali. Poste Italiane applicava agli editori una tariffa scontata rispetto al prezzo normale e lo Stato versava la differenza in compensazione. Ma dal confronto dalla contabilità dei due enti balza all’occhio la discrepanza dei numeri.
Le cifre riportate dai consuntivi di Poste Italiane, sotto la voce «ricavi da compensazione tariffe editoria», sono diverse da quelle, di segno opposto, pubblicate dalla presidenza del Consiglio: per il 2009 per esempio sono stati contabilizzati 220 milioni di euro in compensazioni contro i circa 50 messi a bilancio da Palazzo Chigi. Per il 2008, la presidenza del Consiglio ha quantificato un uscita di 149,4 milioni, Poste Italiane una corrispondente entrata di 247.

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