Startup-mania: quando le big company spendono milioni per accaparrarsi le piccole realtà imprenditoriali

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Non passa giorno che, a suon di miliardi, una grande azienda informatica decida di rilevare una piccola start-up, di cui, fino a quel momento, a stento si era sentito parlare.
E’ come se le web company più grandi del pianeta, dopo essersi guardate intorno, decidessero di uscire e fare…shopping, acquisendo così le tecnologie innovative di piccole aziende, team compresi.
Soltanto nell’anno in corso, per capirci, Google ha acquisito “Bump”, portale di contenuti per dispositivi mobili; “Waze”, start up israeliana (per 1,3 miliardi di dollari) e “Wavii” piccola realtà di Seattle per 30 milioni di dollari.
Nel mese di luglio Tim Cook, CEO di Apple si è aggiudicato la canadese “Locationary” e “Hot Stop”, start up di new York che offre servizi di pubblica utilità legati ai trasporti. In precedenza la big company di Cupertino aveva già comprato “Prime Sense”, start up israeliana per 280 milioni di dollari e solo 1 mese fa ha rilevato “Matcha.tv” per 1,5 milioni di dollari.
Anche Yahoo non è stata da meno: a maggio ha acquistato “Tumblr”, piattaforma di blog, fondata 6 anni fa (per la quale il colosso di Sunnyvale ha sborsato la bellezza di 1,1 miliardo di dollari), e “RockMelt”, star up californiana nata nel 2011 come social browser, pagata 70 milioni di dollari (operazione, quest’ultima, fortemente voluta dal CEO, Marissa Mayer).
Linkedin, il social network dei professionisti, lo scorso aprile ha integrato “Pulse Me”, popolare servizio di aggregazione di contenuti che ha circa 30 milioni di utenti, sparsi in tutto il mondo, e che pubblica per conto di 750 editori. Costo dell’operazione: 90 milioni di dollari.
Twitter nel 2013 ha acquisto “Vine”, piattaforma dedicata alla registrazione di microvideo e, notizia di pochi giorni fa, ha rilevato “MoPub”, start up specializzata nel veicolare, in real time, pubblicità durante eventi live. Il social dei cinguettii ha raggiunto un accordo che prevede un esborso di 350 milioni di dollari. Pensate sia finita qui? Macché.
Amazon ha acquistato “Goodreads” e Mark Zuckenberg, patron di Facebook, circa un anno fa, ha manifestato la volontà di trasformare il social più importante del mondo, in una mobile company, acquisendo “Instagram”, casa produttrice di applicazioni per photo-sharring e foto ritocco, per 1 miliardo di dollari.
Se allargassimo il discorso anche ai giganti delle telecomunicazioni, la lista si allungherebbe all’infinito, ma non è questo il punto.
Analisti, esperti di media e comunicazione si chiedono perché questo fenomeno si sia diffuso in maniera a dir poco esponenziale. E’ una moda che impazza? Una “mania”?
Non si può liquidare una realtà di tali dimensioni con conclusioni semplici e affrettate.
Premesso che ogni web company, strutturalmente e storicamente si differenzia da ogni altra e che quindi, non esiste una sola ragione valida per tutte le aziende, tentiamo ugualmente di trovare risposte sensate e possibili.
Le motivazioni che spingono una grande multinazionale che fattura miliardi ad andare a caccia di start up, sono frutto di un ragionamento complesso e di strategie ben precise.
Innanzitutto anche quando si è i primi della classe, bisogna mantenere il prestigio e la credibilità raggiunti, e questo, per i colossi del web, si può tradurre anche con l’opportunità di sottrarre, ai diretti competitor, strumenti utili presenti sul mercato, in modo da rafforzare la propria leadership.
Un altro obiettivo che le big company perseguono senza sosta, è la volontà di migliorare la qualità dei servizi disponibili sulla propria piattaforma, implementando nuove tecnologie, unico modo per rimanere competitivi.
Strategicamente necessario per vivacizzare il brand dell’azienda, è l’impegno di veicolare il proprio know-how per proporre, con il proprio marchio, nuovi servizi mai offerti prima.
E ancora, da un punto di vista più squisitamente economico, avere la possibilità, con investimenti non eccessivamente onerosi rispetto ai budget disponibili, di entrare in possesso di sistemi alternativi, non presenti sul mercato, che, in un prossimo futuro, possono generare grandi ricavi.
Ma per molte web company, il grande business sta nell’incorporare piccoli team di persone altamente specializzate.
Lavorare sinergicamente con piccole realtà che però dispongono di alta tecnologia e di applicazioni appetibili per un nuovo target di utenti, rappresenta una risorsa per il presente, ma sopratutto per il futuro.
Insomma da una parte abbiamo cloud provider che hanno l’esigenza di aggiornarsi continuamente e di guardare al nuovo. Dall’altra parte ci sono le start up che cercano di mettersi in luce per attirare la loro attenzione.
Infatti, le giovani promesse dell’imprenditoria, oltre alla gratificazione economica, colgono ben volentieri l’’opportunità di un volano che consente alla loro attività di scalare vette irraggiungibili.
Anche in Italia, tante valide start up, spesso costrette a fare i conti con il peso di una burocrazia troppo lenta e macchinosa, strette nelle maglie di una normativa non al passo con i tempi, sperano di incuriosire i big d’oltreoceano visto che, nonostante gli sforzi professionali e le interessanti progettualità messe in cantiere, non riescono a decollare.
Vuoi vedere che il sogno americano, anche per loro, è l’ultima chance?

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