REDDITOMETRO, L’ONERE DELLA PROVA NON INCOMBE TUTTO SUL CONTRIBUENTE

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La determinazione sintetica del reddito effettuata dal redditometro dispensa l’Amministrazione finanziaria da qualunque ulteriore prova rispetto ai fatti-indice di maggiore capacità contributiva posti a base di una pretesa tributaria e pone a carico del contribuente l’onere di dimostrare che il reddito presunto sulla base del redditometro non esiste o esiste in misura inferiore. Spetta, dunque, al contribuente “fornire la prova contraria rispetto alla presunzione stabilita ex lege” (Cass. 29 ottobre 2012, n 18604).

Viene, quindi, ancora confermato dalla Suprema Corte che l’onere di provare l’inesistenza di una capacità reddituale, ove determinata dagli indici di spesa codificati nel DM 10 settembre 1992, grava sul contribuente il quale, ex art. 38, comma 6, del DPR n. 600/1973 (ante modifiche DL n. 78/2010), può, però, sempre dimostrare che il maggior reddito determinato sinteticamente è costituito, in tutto o in parte, da redditi esenti o assoggettati ad imposizione definitiva alla fonte.

Peraltro, la formulazione del citato comma 6 è stata estensivamente interpretata dall’Amministrazione finanziaria (C.M. n. 101/E/1999, circ. Agenzia delle Entrate n. 49/2007 e n. 12/2010, paragrafo 8.3) nel senso che il contribuente potrà dimostrare, oltre al possesso dei citati redditi legittimamente non inclusi nel quadro RN di UNICO, anche la percezione di somme riscosse a titolo di risarcimento patrimoniale, l’utilizzo di finanziamenti, l’introito di somme derivanti da eredità, donazioni o vincite, il conseguimento di redditi fiscalmente convenzionali (ad esempio, redditi agrari tassati in base alle rendite catastali), ovvero di redditi prodotti da altri componenti del nucleo familiare.

Anche la giurisprudenza, peraltro, si è ormai espressa nella medesima direzione, affermando che “la prova contraria non è circoscritta alle ipotesi di cui all’art. 38, comma 6 del DPR 600/73, relative ai redditi esenti o soggetti a ritenuta alla fonte a titolo d’imposta, in quanto è possibile dimostrare che il reddito presunto sulla base del coefficiente non esiste o esiste in misura inferiore” (Cass. 18 giugno 2008 n. 16472).

Tuttavia, assai dibattuto è il tema su quale prova contraria il contribuente debba fornire per dimostrare che un reddito presunto non esiste e sul nesso di diretta causalità tra spese di sostenimento/mantenimento di un bene-indice e reddito sinteticamente accertabile, ma l’Agenzia delle Entrate, anche in conseguenza di pronunciamenti rigorosi della Cassazione (sent. n. 6813/2009), impone sempre a carico del contribuente un onere probatorio intransigente, ovvero un carico che costringe l’accertato a dimostrare non solo l’eventuale possesso di redditi/risorse finanziarie legittimamente non inclusi in UNICO (applicando, al massimo, le estensioni interpretative contenute nei citati documenti di prassi), ma anche un completamento di detta prova con l’ulteriore dimostrazione che il finanziamento dell’investimento/bene-indice accertato deriva proprio da tali proventi, con ciò, quindi, andandosi a ipotizzare un ulteriore e, per alcuni giudici di merito, non previsto gravame probatorio rispetto a quanto disposto dal DPR n. 600/1973.

Così operando, infatti, su ogni contribuente, ancorché non soggetto ad obblighi contabili, incomberebbe una latente necessità di tenere sempre memoria dei propri movimenti finanziari, con ciò introducendo nel sistema una sorta di onere implicito di ricostruzione, ex post e in sede di accertamento, di una contabilità, quantomeno finanziaria, per fornire puntuale giustificazione in merito al sostenimento di tutte le proprie spese private.

Pronunciandosi su tale tema, la C.T. Prov. di Vicenza, con la sentenza n. 115/9/12 del 16 ottobre 2012, ha affermato che ad un reddito accertabile con coefficienti sintetico-induttivi può essere legittimamente opposta, quale elemento idoneo e sufficiente a vincere la presunzione redditometrica, anche la somma “del reddito dichiarato integrata con redditi esenti e con disinvestimenti che hanno portato una disponibilità di liquidità”, mentre “non può essere accolta la pretesa dell’Ufficio che richiede anche l’ulteriore prova di come la somma disinvestita è stata utilizzata”.

In definitiva, secondo i giudici vicentini, l’onere della prova che incombe sul contribuente è solo quello di indicare l’esistenza di un reddito capiente e/o di una provvista patrimoniale utile a giustificare l’effettuazione di un investimento e/o il mantenimento di un dato bene-indice.
A quel punto, è all’Agenzia delle Entrate che, semmai, competerà la necessità di fornire elementi e circostanze “da cui si possa dedurre che il ricorrente in quell’anno abbia svolto un’altra attività da cui abbia tratto reddito non dichiarato”, ovvero che la risorsa finanziaria che ha effettivamente permesso la manifestazione accertabile di capacità contributiva debba, quindi, ritenersi ascrivibile ad evasione di imposta e non ai redditi indicati dal contribuente per giustificare il proprio tenore di vita.

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