Quel pasticciaccio brutto dell’equo compenso

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Da un bel po’ di tempo qualcuno scopre che la crisi dell’editoria ha qualche soluzione a cui nessuno aveva pensato. E a volte questo argomento viene affrontato dalle istituzioni a livello massimo, prendiamo l’esempio dell’equo compenso che i giganti del web dovrebbero riconoscere agli editori ed ai produttori di contenuti giornalistici.

La fonte è sovranazionale, il Parlamento Europeo e il Consiglio approvano nel 2019 una direttiva che gli Stati membri devono recepire. La narrazione esemplare, i giganti del web debbono riconoscere un compenso, equo, per l’utilizzo commerciale che fanno dei contenuti alle imprese editrici. La direttiva è semplice, puntuale, le regole scritte sono semplici semplici, una percentuale del fatturato di Google, di Facebook & C. per detto utilizzo va riconosciuto agli editori. Questa percentuale può arrivare fino al settanta per cento sulla base di una serie di parametri abbastanza intuitivi, come il numero di giornalisti impiegati, la storicità della testata, gli investimenti effettuati.

Nel 2019, quando si vendeva circa il 30 per cento delle copie in più rispetto ad oggi, il provvedimento europeo fu acclamato come possibile risoluzione di tutti i mali del settore, finalmente i ricchi davano qualcosa ai poveri. Il legislatore italiano ha impiegato due anni e mezzo per recepire la direttiva e in quel periodo si è perso un ulteriore venti per cento di copie. E la legge è stata accolta come la possibile risoluzione di tutti i mali del settore, finalmente i ricchi davano qualcosa ai poveri. A quel punto l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni doveva fare la delibera di attuazione delle norme e invece che impiegare due mesi, come diceva la legge, ci ha messo un anno. In pratica rinominando gli articoli. E la delibera è stata accolta come la possibile risoluzione di tutti i mali del settore, finalmente i ricchi davano qualcosa ai poveri. Anzi visto che era passato tanto tempo, oltre tre anni dalla Delibera della Commissione europea c’è stata proprio una standing ovation per l’Autorità.

Gli effetti della delibera sono stati pressochè nulli, i grandissimi editori hanno negoziato da soli, in realtà pochi spiccioli, ma in tempo di vacche magre tutto fa brodo, mentre i piccoli si sono trovati sperduti nel mare grande degli algoritmi degli over the top. Che non accettano pec, che rifuggono il confronto e che quando hanno fatto qualche offerta hanno, semplicemente, mortificato gli editori. Facebook è andata oltre, nel senso che ha disapplicato la delibera, sin da subito e per quei pochi che sono riusciti a superare le fitte nebbie dei loro sistemi chiedendo i dati non ha risposto. Qualche editore non ha accettato ed è andato avanti, chiamando in causa l’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni. Facebook a questo punto ha deciso di entrare in campo, ha fatto ricorso al Tar ed ha vinto. L’argomento è semplice, semplicissimo, può lo stesso soggetto, l’Autorità, regolamentare, vigilare e sanzionare? Lasciando stare Montesquieu e la separazione dei poteri, puri sofismi all’epoca della società liquida, che travolge il diritto, il tribunale amministrativo romano senza saper né leggere né scrivere, anzi avendo i giudici qualche vecchia lettura, ha deciso di sospendere tutto e di rimandare la questione alla Corte di giustizia dell’Unione europea. Questa è la storia della risoluzione di tutti i mali del settore. Un pasticciaccio brutto brutto.

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