PROCESSO MEDIASET SUI DIRITTI TV: DALLE INDAGINI AL DIBATITTO IN CORSO, UNA STORIA LUNGA 10 ANNI

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Silvio Berlusconi, coinvolto nell’ambito del processo Mediaset sui diritti tv, al termine del procedimento giudiziario, è stato condannato a quattro anni di reclusione per frode fiscale (anche se con l’indulto si arriva a uno). Inoltre l’ex premier sarà interdetto dai pubblici uffici per cinque anni e dovrà versare all’Erario dieci milioni di euro.
Parliamo ancora del primo grado di un processo durato sei anni. L’udienza preliminare è terminata, dopo continui rinvii, nel 2006. Ma le indagini risalgono al 2002 per fatti accaduti negli anni ’90. Per il pm Edoardo D’Avossa, che ha letto la sentenza: «i diritti tv erano oggetto di passaggi di mano e di maggiorazioni di prezzo ingiustificate». Il tutto, a detta dei giudici, avrebbe permesso una evasione notevolissima e la creazione di fondi neri.
Berlusconi, descritto da D’Avossa come «un uomo con una naturale capacità a delinquere», ha parlato di «sentenza incredibile, motivata da un uso della giustizia a fini di lotta politica, e di barbarie». E per questo ha annunciato che non rinuncerà all’impegno politico, ricandidandosi alla Camera, sia pure non più come aspirante premier, proprio per « riformare il pianeta giustizia ed evitare che ad altri cittadini possano capitare queste cose».
Ma facciamo un passo indietro per raccontare la genesi di processo, che tra indagini preliminari e rinvii è durato oltre 10 anni.
«Chiedo la condanna dell’imputato Silvio Berlusconi a 3 anni e 8 mesi per frode fiscale». Suonava così la requisitoria di pochi mesi fa dei pm Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro. Ma dagli inizi delle indagini ne è passata di acqua sotto i ponti.
Come scriveva L’Unità « in mezzo ci sono due lunghe interruzioni, quasi due anni per lodo Alfano e legittimo impedimento, eccezioni varie, cambio di collegi, ricusazioni di giudici, eccezioni di costituzionalità, modifiche in corso d’opera del codice penale». Le imputazioni iniziali erano appropriazione indebita, falso in bilancio, ricettazione, riciclaggio, frode fiscale. Alla fine è rimasta “attiva” solo l’ultima. Il falso in bilancio, infatti, è stato “depenalizzato” (la pena, sia pure ammorbidita, rimane ancora un illecito) dal secondo governo Berlusconi. Per il resto ci ha pensato la prescrizione.
Dunque si è proceduto per il solo capo d’imputazione legato alla frode fiscale. E questo per il triennio 2001-2003. Secondo l’accusa, si tratterebbe di 40 milioni di euro creati attraverso una rete di passaggi finalizzato a creare una sorta di fondo nero per le tangenti.
Ovviamente Berlusconi ha rispedito al mittente tutte le accuse. «Una richiesta assurda. Dove avrei trovato il tempo e il modo per interferire su Mediaset per eludere il fisco per una cifra inferiore all’1% dell’imponibile dichiarato?» ha lamentato il Cavaliere. Il processo fa parte di una macchina giudiziaria imponente che poggia su radici antiche. I pm ipotizzano, infatti, che già tra il 1994 e il 1998 la compravendita dei diritti tv fosse utilizzata, attraverso un sistema di catene di vendita fittizie, per creare fondi neri: 368 milioni di dollari su un volume totale di un miliardo. Centrale in tutto ciò sarebbe stato l’apporto fornito dal Gruppo B Fininvest: decine di società estere off-shore finalizzate a creare transazioni fasulle per gonfiare i costi. A quel punto il processo si interseca con quello All Iberian (società off-shore creata da un cugino di Berlusconi) e con quello Mills, l’avvocato inglese accusato di aver preso soldi per non mettere nei guai il Cavaliere.
Ritornando alla galassia di società descritta dai pm, secondo i giudici, queste sarebbero state intestate a prestanome (tra cui anche i figli), ma a gestirle sarebbe stato Berlusconi. «C’è la sua impronta digitale», affermano i magistrati. Ma non solo la sua. L’intermediario principale sarebbe stato Franck Agrama, uomo d’affari egiziano legato a doppio filo con molti processi “berlusconiani”. Agrama avrebbe acquistato con la proprie società i diritti tv per film e serie tv per poi rivenderli alla Fininvest a tre volte il prezzo originario. «Spezzettamenti inutili, l’acquisto poteva essere diretto», affermano i magistrati.
Se il processo è iniziato nel 2005, le indagini hanno avuto origine nel 2001 grazie ad una rogatoria chiesta anni prima per il processo al consolidato Fininvest. I magistrati cercarono informazioni in mezzo mondo, investigando in ben 12 Paesi tra cui Lussemburgo, Regno Unito, Bahamas, Isole Vergini, Usa, Malta, Isola di Man e Svizzera. Proprio da quest’ultima arrivarono i conti bancari delle società off-shore Century One e Universal One. Da queste si apre una “crepa”. Ecco allora che i pm formulano il capo d’imputazione: appropriazione indebita di «risorse finanziarie della Società Fininvest Spa e, dal ’95, di Mediaset spa mediante plurime operazioni di trasferimento di ingenti somme di denaro». Il tutto tramite società e conti corrente gestiti dai fiduciari dell’ex premier.
Nel 2005, all’inizio del processo, si parlava di 277 milioni di dollari, 9,4 miliardi di lire, 13,5 milioni di franchi svizzeri, 2 milioni di franchi francesi, 548.000 fiorini olandesi, a cui si aggiungono altre somme ancora da «quantificare». Per l’accusa, invece, la presunta frode fiscale ammonterebbe a oltre 120 miliardi di lire. Per il falso in bilancio si parlava di 170 milioni di dollari.
Di tutto ciò sono rimasti “solo” 40 milioni frode fiscale per il triennio 2001-2003 (mentre gli affari sui diritti tv si aggirerebbero sui 470 milioni).
Bisogna dire che il pm De Pasquale aveva chiesto dieci condanne: 6 anni per il fondatore di Banca Arner, Paolo Del Bue, accusato di riciclaggio; 5 per Erminio Giraudi, 4 per Carlo Rossi Scribani. Per Daniele Lorenzano e Frank Agrama, invece, la richiesta era di 3 anni e 8 mesi mentre per Fedele Confalonieri la pena richiesta per frode fiscale ammontava a 3 anni e quattro mesi. Infine, 3 anni per Marco Colombo, Giorgio Dal Negro e Manuela De Socio, e 2 anni e 6 mesi per Gabriella Galeotto. Alla fine sono state condannate solo quattro persone: Berlusconi, Agrama, Loranzano e Galeotto. Ma ci ha pensato l’indulto ad eliminare l’ipotesi carcere. Rischia solo Berlusconi che potrebbe scontare un anno di carcere. Resta il fatto che la sentenza Mediaset non esaurisce il capitolo giudiziario. Entro l’anno potrebbe chiudersi il primo grado del Ruby gate, altro nervo scoperto per il Cavaliere.
E intanto si schiera per l’ex premier il quotidiano della famiglia Berlusconi: per Il Giornale bisogna – è il titolo a tutta pagina – «Resistere, resistere, resistere», citando non a caso l’appello lanciato nel 2002 ai magistrati dall’ex procuratore generale di Milano Francesco Saverio Borrelli. L’editoriale di Vittorio Feltri invita Berlusconi a tenere duro perché «la vicenda giudiziaria riguarda certi diritti pagati o non pagati… In cui non ci addentriamo» ma «Il nocciolo della questione è comunque politico. Dal momento in cui il Cavaliere ha fondato, nel 1993, un partito che l’anno successivo vinse le elezioni, non ha più avuto pace».
E Libero titola «Caccia Grossa» su un Berlusconi in veste da cinghiale: «Condannato a quattro anni. Il passo indietro non basta: lo vogliono vedere in carcere o sul lastrico».
Sul fronte opposto numerosi quotidiani che dibattono della sentenza e la considerano comunque la conclusione di una parabola. Così Repubblica ha un editoriale di Ezio Mauro, «Una storia esemplare: Si chiude così, con la sanzione giudiziaria netta, durissima e soprattutto infamante un’avventura titanica nata nella televisione e finita in tribunale ma che era già morta nella politica». Sulla Stampa, per Gianni Riotta «I miraggi e gli alibi sono svaniti: la condanna a 4 anni di reclusione, ridotti a uno per indulto, con cinque di interdizione dai pubblici uffici… segue di poche ore la rinuncia dell’ex premier a ricandidarsi a Palazzo Chigi e chiude per sempre una stagione della Repubblica lunga 18 anni». Sulla stessa linea L’Unità: «I titoli di coda di un film finito” di Michele Prospero». Dello stesso parere Pubblico: «Una frode fiscale», con una foto che accosta Berlusconi a Al Capone.
Il Fatto Quotidiano («Berlusconi delinquente naturale», citando dalla sentenza) ha un editoriale di Marco Travaglio, «Le indecenti evasioni». L’articolo si concentra sulle conseguenze pratiche della sentenza: «La mannaia della prescrizione incombe» anche se «il reato dovrebbe estinguersi nel 2014, dunque c’è tutto il tempo per celebrare gli altri due gradi di giudizio». Ma anche fino all’ultimo grado «se la Cassazione confermasse il verdetto di ieri, B. non andrebbe comunque in carcere: sia perché dai 4 anni vanno detratti i 3 dell’indulto gentilmente offerto nel 2006 dal centrosinistra… sia perché B ha più di 70 anni e in base alla legge ex Cirielli da lui stesso imposta e mai cancellata dal centrosinistra, a quell’età si va ai domiciliari». Ma conclude: «Resterebbero però 2 anni di interdizione dai pubblici uffici… B. dovrebbe lasciare il parlamento e perderebbe oltre al seggio l’immunità».
La vicenda del processo ha fatto il giro del mondo. Ed è finita nei titoli di apertura del Financial Times con una grande foto di Berlusconi e una succinto riassunto: «Silvio Berlusconi, tre volte presidente del Consiglio in Italia, è stato condannato a quattro anni di carcere per frode fiscale, ma è improbabile che il 76enne finisca mai in prigione a causa della sua età».

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