PERCHE’ NON VA ABROGATO L’ORDINE DEI GIORNALISTI

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Tra i referendum “grilleschi” vi è anche quello per abrogare la legge del 1963 sull’Ordine dei giornalisti. In una nota di Franco Abruzzo si legge che tale referendum deve ritenersi “non ammissibile”, ai sensi del secondo comma dell’art. 75 della Costituzione, in quanto mirante all’abrogazione di una legge costituzionalmente vincolata. I Consigli degli Ordini sono giudici disciplinari anche rispetto al Codice di procedura penale (artt. 114 e 115) e al “Codice deontologico relativo al trattamento dei dati personali nell’esercizio dell’attività giornalistica” (allegato A del Dlgs n. 196/2003, Testo unico sulla privacy).
La parola Ordine significa riconoscimento giuridico di una professione, nel caso particolare della professione di giornalista. Le regole della professione in Italia sono fissate per legge e, quindi, formano un vincolo che obbliga tutti a determinati comportamenti. L’anomalia italiana nasce dalla Costituzione, che vuole un esame di Stato per accedere alle varie professioni intellettuali. L’esame di stato presuppone un percorso formativo determinato sempre dalla legge.
L’Ordine, inoltre, è deontologia. Consideriamo l’importanza strategica per una società democratica del diritto fondamentale ad un’informazione “corretta e completa” (previsto dall’art. 21 della Costituzione e dell’art. 10 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo). Questo diritto presuppone la presenza e l’attività di giornalisti vincolati a una deontologia specifica e a un giudice disciplinare nonché a un esame di Stato, che ne accerti la preparazione come prevede l’articolo 33 della Costituzione.
I rischi di un’abrogazione della legge n. 69/1963 sono:
1) quella dei giornalisti non sarà più una professione intellettuale riconosciuta e tutelata dalla legge.
2) risulterà abolita la deontologia professionale.
3) cadrà per giornalisti (ed editori) la norma che impone il rispetto del “segreto professionale sulla fonte delle notizie”.
4) senza legge professionale, direttori e redattori saranno degli impiegati di redazione vincolati soltanto da un articolo (2105) del Codice civile che riguarda gli obblighi di fedeltà verso l’azienda. Il direttore non sarà giuridicamente nelle condizioni di garantire l’autonomia della sua redazione.
5) una volta abolito l’Ordine, scomparirà l’Inpgi. I giornalisti finiranno nel calderone dell’Inps, regalando all’Inps un patrimonio di 3mila miliardi di vecchie lire (immobili e riserve).
Le riforme sono indispensabili ma per questo non servono i referendum. Ci vuole una legge, approvata dal Parlamento, che tolga agli editori il potere che hanno dal 1928 di “fare” i giornalisti. I giornalisti devono nascere soltanto in Università anche per garantire il rispetto del principio costituzionale dell’imparzialità. Non possono essere i professionisti a giudicare chi debba entrare nella cittadella delle professioni.
Infine una precisazione: non bisogna confondere l’ordinamento repubblicano della professione di giornalista con quello fascista. L’articolo 7 della legge 2307/1925 (che prefigurava la nascita di un Ordine dei Giornalisti) non è stato mai attuato dal regime, perché intervenne la legge 563/1926 sull’organizzazione sindacale di tutte le professioni. A questa disciplina giuridica fondamentale si adeguò necessariamente il Regio decreto 384/1928, che determinò la nascita dell’Albo (non dell’Ordine) dei giornalisti, Albo gestito da un comitato di 5 giornalisti operante all’interno dei sindacati regionali fascisti dei giornalisti. L’Ordine dei Giornalisti è nato nel 1963 su iniziativa di due eminenti personalità della democrazia repubblicana, Aldo Moro e Guido Gonella.
Fabiana Cammarano

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