La Cassazione fa chiarezza, una volta di più, sulle differenze che intercorrono tra il lavoro giornalistico subordinato e quello di natura autonoma. E lo fa con una recentissima ordinanza 4496 pronunciata appena il 14 febbraio scorso, in cui fissa i punti cardine per la definizione giuridica delle due distinte figure.
La decisione è stata pronunciata dalla Sesta Sezione Civile e recita: “Nel lavoro giornalistico sono configurabili gli estremi della subordinazione qualora ricorrano i requisiti della continuità della prestazione, della responsabilità di un servizio e del vincolo di dipendenza, e cioè qualora si sia in presenza dello svolgimento di un’attività non occasionale, rivolta ad assicurare le esigenze informative riguardanti uno specifico settore, della sistematica redazione di articoli su specifici argomenti e di rubriche, e della persistenza, nell’intervallo tra una prestazione e l’altra, dell’impegno di porre la propria opera a disposizione del datore di lavoro, in modo da essere sempre disponibile per soddisfarne le esigenze ed eseguirne le direttive”.
I punti irrinunciabili sottolineati dagli ermellini sono dunque la continuità della prestazione, un vincolo di dipendenza, la responsabiliità del servizio che si esprime anche nel semplice “essere a disposizione” per “coprire” un settore del panorama informativo.
É invece da definirsi lavoro autonomo quello che si svolge per mezzo: “di prestazioni singolarmente convenute e retribuite in base a distinti contratti che si succedono nel tempo, ovvero nel caso in cui siano concordate singole, ancorchè continuative, prestazioni secondo la struttura del conferimento di una serie di incarichi professionali”. Insomma, la stabilità della collaborazione non comporta automaticamente un vincolo di subordinazione lavorativa.
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