LEGGE BAVAGLIO. ARTICOLO 21 SCENDE IN PIAZZA AL PANTHEON

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E’ impressionante il modo in cui, sull’iniziale (e condivisibile) proposito – nato dal ‘caso Sallusti’ – di eliminare il carcere per i giornalisti, si è innestata una serie di proposte vendicative e rancorose: quasi che si volesse cogliere l’occasione per liquidare il giornalismo più incisivo e far pagare all’informazione i conti del diffuso clima “anti-casta” che tiene sotto tiro il ceto politico.
La spia più evidente e pericolosa è l’abnorme innalzamento delle sanzioni in denaro: 100mila euro (questo il nuovo massimo) sono una cifra già pesante per un grande giornale, ma rappresenterebbero una condanna a morte per tante voci medie e piccole, che dovrebbero semplicemente chiudere, e per i molti precari e freelance che una somma del genere ci mettono qualche anno a guadagnarla. Inevitabile sarebbe l’intervento diretto e invasivo dell’editore sui contenuti del giornale: direttore e capocronista non potrebbero sottrarsi ad un attentissimo vaglio preliminare di tutti gli articoli “pericolosi”, e l’effetto sarebbe l’accantonamento di ogni tema suscettibile di irritare i potenti (della politica, dell’economia o della finanza). Quanto alla rettifica, è giusto renderne più stringente l’obbligo: in materia noi giornalisti abbiamo molto da farci perdonare, perché troppo spesso abbiamo disatteso un basilare dovere professionale, nascondendo a pagina 40 la correzione di errori gridati a pagina 1. Ma se la rettifica viene fatta presto e bene, merita di essere considerata motivo di esclusione della procedibilità, cioè deve servire a fermare l’azione penale; tranne che nei casi di diffamazione grave e ripetuta, nei quali è giusto che si arrivi alla sospensione dall’attività professionale, e persino alla radiazione dall’Albo (a riprova del fatto che non stiamo certo chiedendo l’impunità per noi giornalisti: gli errori ripetuti ed intenzionali devono trovare una sanzione di corrispondente durezza). Del resto, che la legge in discussione voglia tenere l’informazione sotto scacco lo dimostra anche l’assenza di qualsiasi meccanismo per scoraggiare le richieste di risarcimento danni, anche promosse direttamente in sede civile, che vengono “sparate” senza limiti (si può arrivare sopra il milione di euro) allo scopo di intimidire giornalisti ed editori, e senza che coloro che si dicono diffamati paghino pegno se la diffamazione non c’è. Come ha scritto Luigi Zingales sul “Sole 24 Ore”: “alle imprese conviene far causa anche quando sanno di perderla, perché ogni causa intentata dissuade molti altri giornalisti dal provare ad essere critici”. E di questo fastidio per l’informazione fa le spese anche la rete: i testi in discussione non distinguono infatti tra i doveri più stringenti ai quali deve rispondere il giornalismo professionale e le regole alle quali devono attenersi i blogger, che è sbagliato assimilare ad una struttura redazionale organizzata.
E’ duro dirlo: ma se queste rimarranno le caratteristiche del provvedimento, è meglio che il Senato lasci in vigore la brutta legge esistente, carcere incluso. Però governo e parlamento abbiano chiaro che non è stata archiviata con l’uscita di Berlusconi da palazzo Chigi l’alleanza tra i giornalisti e i tanti cittadini non più disposti a farsi sequestrare il diritto di sapere. Se uguale è il rischio-bavaglio, uguale sarà la risposta.

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