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Informazione e social media, quando l’affidabilità si basa sui “like”

Internet alimenta l’informazione o la disinformazione? Analisi e ricerche di enti e studiosi indicano i pericoli della scarsità di competenze digitali e informative degli italiani, lo sviluppo di internet da solo non basta: la soluzione si trova in un percorso complesso

Informazione, l’affidabilità si misura in “like”?

Internet diffonde in ogni minuto, in ogni istante una quantità di dati e informazioni inimmaginabile, contenuti da fonti illimitate: la quantità e la varietà delle informazioni crescono a dismisura, ma abbiamo i mezzi per leggere e scegliere cosa leggere con cognizione di causa?
Accendendo il computer o un qualunque dispositivo mobile e aprendo Facebook abbiamo accesso ad un luogo dove coesistono diversi universi più o meno paralleli e in quanto tali non dovrebbero essere destinati ad incontrarsi. O almeno quasi, è qui infatti che milioni di utenti incontrano persone con cui condividono interessi e dieta mediatica: proprio qui, secondo alcuni studiosi come Walter Quattrociocchi, informatico, coordinatore del Laboratory of Computational social science dell’Imt di Lucca, si nasconderebbe il segreto della viralità di certe notizie su internet, molto spesso sotto forma di bufale clamorose.
Insomma i “like” su Facebook riescono ad esprimere il successo di certi link sul social network, ma esiste un modo per dimostrarlo? E’ quanto Quattrociocchi sostiene di aver ottenuto dallo studio “Viral Misinformation: The role of Homophily and Polarization” (in italiano “Disinformazione virale: il ruolo dell’omofilia e della polarizzazione”), condotto con altri sette ricercatori, dislocati in diverse università italiane.
Non solo, anche il World Economic Forum, nel rapporto 2015 sui rischi globali, indica tra i trend maggiori l’evoluzione dell’iperconnessione per un fenomeno che sembra destinato ad allargarsi a macchia d’olio.

Le bufale hanno la stessa rilevanza delle notizie vere
Il lavoro di Quattrociocchi affonda le sue radici in diversi studi precedenti, sempre targati Imt, che Fabio Chiusi su Wired ha definito “una trilogia del complotto“.
Gli studiosi hanno controllato al microscopio le abitudini di milioni di italiani sul modo di reperire le informazioni sul web e le conclusioni sono piuttosto interessanti.
Si parte dall’assunto iniziale di quest’articolo, ossia dal fatto che su Facebook entriamo in contatto, bene o male, con persone con cui condividiamo qualcosa. Anche se dallo studio emerge che le varie categorie di utenti prese in considerazione non interagiscono molto tra di loro “e quando lo fanno litigano, si insultano, ognuno resta della sua idea, poco importa se sia giusta o sbagliata”. Per gli appassionati di scienza ed i complottisti, cioè quegli internauti che si informano su pagine “alternative”, dedicano alle diverse news che leggono la stessa quantità di attenzione. Il tutto indipendentemente dalla qualità dell’informazione, e persino dalla sua veridicità, perciò le notizie false hanno la stessa rilevanza delle notizie vere.
Altra discriminante: quanto maggiore è la quantità di informazioni, tanto minore è il tempo che si può dedicare all’approfondimento e alla verifica della singola fonte, quanto maggiore è la probabilità di accreditare informazioni false, scorrette, tanto più alta la competenza digitale necessaria.

Diverse sfumature di disinformazione
Bufale create ad arte o estremizzazione dell’informazione (in questo bell’articolo su Repubblica un elenco con alcune tra quelle di maggior successo nel 2014), le più insidiose sono  le interpretazioni parziali o di sintesi di notizie e di titoli riportati da fonte “autorevole”, come i giornali online, che non approfondiscono la notizia, ma vanno ad enfatizzarne una breve sintesi. Un esempio facile da trovare è relativo alle dichiarazioni di politici in cui si dà come in esercizio una misura legislativa magari ancora in discussione. Ma anche i gruppi su Facebook che hanno demonizzato il wifi scolastico facendo circolare informazioni scorrette sono un buon esempio.
La disinformazione ha molti gradi di declinazione, quello che è certo è che si fa sempre più insidiosa e lo stesso World Economic Forum ne parla dal 2013 nei vari report annuali sottolineando quanto in realtà non sia tanto il mezzo a preoccupare, quanto il contesto sociale e culturale in cui si sviluppa l’iperconnessione.
Fondamentalmenti, infatti, il web e i social media non fanno altro che amplificare la portata delle vecchie dicerie, ma così come amplificano la portata della buona informazione. Il problema è che se chi decide l’affidabilità o meno di una notizia decide di affidarsi ai “like” o alle condivisioni, allora siamo nei guai.

Il gap di competenze in Italia
Molto spesso, specialmente quando parliamo del web, il confine tra vero e falso sta nel consenso piuttosto che ad un’analisi e ad una valutazione approfondita di ciò che si legge. Il senso critico è strettamente collegato  al livello culturale ed in tal senso in Italia non siamo messi bene. I dati diffusi dal Piaac dell’Ocse rilevano che circa due terzi della popolazione non hanno una sufficiente alfabetizzazione digitale. C’è una mancanza di competenza informativa nel determinare l’affidabilità delle fonti che è trasversale nelle classi sociali e nelle fasce d’età: parliamo oggi di analfabetismo digitale perché si avverte la mancanza di risorse permanenti che possano supportare una corretta fruizione del web. Uno dei primi nodi da sciogliere comporta l’abbandono del falso mito dei nativi digitali, che devono essere guidati, soprattutto nel sistema scolastico, nello sviluppo di competenze che ormai sono basilari e non più accessorie.
Anche i dati elaborati da Ipsos Mori sul livello di informazione di undici Paesi sono tutt’altro che confortanti: l’Italia figura infatti all’ultimo posto dei Paesi presi in considerazione, l’indice di ignoranza italiano è il maggiore. Quali cause? Basso utilizzo di internet, scarsa qualità del sistema scolastico e poca libertà di informazione dei media tradizionali. Qui da noi spesso l’attenzione si è focalizzata solo sul dato quantitativo, cioè spingere sempre più persone all’utilizzo delle risorse del web, come i social media, e all’utilizzo del mobile. Ma questa non è certo la soluzione, la disinformazione digitale può essere arginata solo elevando le competenze digitali, un percorso complesso verso la piena consapevolezza dei mezzi a disposizione pressoché di tutti i cittadini che può solamente giovare al contesto sociale ed alla democrazia.

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