Il pasticcio di El Alamein, Facebook e l’algoritmo che vuole selezionare i media

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È dalle piccole (o grandi) cose che si intuisce quale sarà il futuro. Nei giorni scorsi è accaduto, su Facebook, che alcuni utenti postassero il cippo che ricorda il sacrificio dei soldati italiani della Folgore a El Alamein. Su quella lapide si legge il celeberrimo motto che ricorda quella sconfitta: “Mancò la fortuna, non il valore”.

Bene, per l’algoritmo di Facebook, l’immagine condivisa in rete è da censurare. Al punto che è stata sospesa dal social come contenuto inopportuno e bloccando gli utenti. Alle proteste degli internauti, e solo dopo diverse ore, i guardiani della moralità del social hanno ammesso l’errore e si sono scusati, ripristinando il contenuto in questione.

Sarebbe, questa, una delle tante polemiche che nascono e muoiono, ogni giorno, sui social. Ma forse non è così. Perché è l’ennesima. Perché, per una volta ancora, l’algoritmo (e forse l’ignoranza storica di chi li imposta…) dimostra tutta la sua inadeguatezza ad affrontare la complessità del mondo. Si risponderà, una volta ancora, che Facebook è una società privata e fa quello che preferisce. Si dovrà pur notare, però, che agisce in un regime semimonopolistico (a voler essere buoni…) e che le normative vigenti per questi operatori sono diverse rispette a quelle che regolano il libero mercato.

La questione però è ancora un’altra. Facebook pochi giorni fa ha dichiarato di voler lottare contro la disinformazione e nel tripudio (miope…) generale ha annunciato una stretta all’algoritmo specificando che, per esempio, la stessa notizia sulla timeline di un utente sarà data da un solo organo di informazione. Quello ritenuto più “originale” dallo stesso social. Al di là dei dubbi, che già Editoria ha espresso qui, resta un altro problema: se Facebook non è in grado di riconoscere un pezzo gigantesco della storia militare italiana ed europea e lo confonde come inno alla violenza, quali garanzie il social potrà dare nella scelta dei media da proporre ai suoi iscritti? Siamo davvero sicuri che la lotta alla disinformazione, che spesso e volentieri è talmente ridicola da annullarsi da sé, passi attraverso il riconoscimento del diritto a società private (che spesso e volentieri toppano alla grande, come il caso del cippo dimostra) di giudicare il lavoro e la professionalità di chi fa sul serio giornalismo?

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