GOOGLE VS. PRIVACY: 36 PROCURATORI GENERALI USA DICONO DI “NO” ALLA NUOVA POLICY

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In una lettera inviata ieri al Ceo di Google, Larry Page (foto), la National Association of General Attorneys degli Stati Uniti ha espresso le proprie riserve sulla normativa annunciata da Big G, volta a semplificare la regolamentazione sulla privacy relativa a 60 servizi, con l’uso integrato, mediante l’attivazione di un account unico, dei prodotti offerti dalla piattaforma Google.
“La nuova policy costringe i consumatori ad acconsentire all’interscambio dei dati tra tutti i prodotti Google, senza che venga garantita loro l’opzione di opt-out”, si legge nella missiva, facendo leva sugli effetti derivanti dall’uso integrato di servizi come la posta elettronica GMAIL, il social network Google Plus, il servizio di geolocalizzazione Google Maps o la piattaforma di video sharing YouTube, prima tenuti separati dall’utente mediante l’apertura e gestione di profili diversi.
Sul fronte dell’ecosistema mobile, colpito anch’esso dalle novità di casa Google in quanto dominato in buona parte dal sistema operativo del colosso di Mountain View, Android, i procuratori asseriscono che si tratti di una “invasione della privacy impossibile da evitare per quegli utenti di smartphone android che costituiscono quasi il 50% del mercato Usa. Per questi consumatori, l’eventuale sottrazione alla nuova direttiva di Google si traduce nell’acquisto di un altro device con un ulteriore aggravio di spese”. Il che secondo l’Associazione, contrasterebbe con quanto assicurato da Google nella nota introduttiva alle nuove regole sulla privacy che recita: “Con la nuova policy noi non ridurremo i vostri diritti senza il vostro esplicito consenso”.

Ma veniamo alla questione principale. Il cuore del problema, impugnato da più fronti (quello Europeo grazie ad enti di competenza quali Cnil, Articolo 29 e quello Usa attraverso centri di ricerca e gruppi di interesse come EPIC ed il Center for Digital Democracy) risiederebbe proprio nell’uso combinato delle informazioni relative ad abitudini e preferenze degli utenti, collezionate e scambiate tra i servizi più “strategici” destinati ad alimentare la macchina pubblicitaria di BigG. Un risultato ottenuto grazie al più alto grado di profilazione degli iscritti, trasformati in target virtuali per annunci sempre più personalizzati. Tale sistema risulta, tra l’altro, già affinato dal servizio di ricerca social “Plus Your World” offerto da Google (al momento solo negli Usa), in alternativa all’algoritmo tradizionale, e capace di “frugare” tra le informazioni (commenti e foto)condivise dagli iscritti sull’omonimo social network. Dal 1° Marzo anche questi dati convergeranno in un account unico. Mentre all’utente verrà delegata la responsabilità di stabilire e monitorare quali contenuti mantenere pubblici onde evitare che vengano indicizzati dal motore di ricerca, provvedendo ad un loro aggiornamento e all’eventuale eliminazione, fatta salva la necessità di conservazione per “legittime finalità commerciali o legali” stabilite dalla Grande G. Una formula piuttosto ambigua e al limite del paradosso, di fronte a quella che si preannuncia essere la più trasversale integrazione di dati personali associati a prodotti diversi, giustificata da BigG solo con la promessa di un’esperienza d’uso della piattaforma più efficiente e funzionale.
Una modalità di comunicazione che il direttore esecutivo del Center for Digital Democracy, Jeff Chester, ha definito “ingannevole” tanto da depositare una denuncia alla FTC (la seconda dopo EPIC) contro Google, per aver violato l’accordo ventennale sulla privacy sottoscritto nell’ottobre del 2011 con la stessa agenzia Antitrust e con cui il colosso della ricerca si impegnava a non cambiare le modalità di condivisione dei dati raccolti senza prima l’esplicito consenso degli utenti.
Intanto anche alla Casa Bianca si è discusso di Privacy. Il Presidente Barack Obama nelle scorse ore ha formalizzato la proposta di una Carta dei diritti dei consumatori volta a rafforzare le tutele della privacy non più aggirabili da informative poco trasparenti, dando maggiori garanzie agli utenti sul pieno controllo del tracciamento della navigazione e sulle finalità e modalità di utilizzo dei propri dati.
Prima che il Congresso approvi la nuova legislazione, la Federal Trade Commission potrà imporre il rispetto di un codice di condotta elaborato dal Dipartimento del Commercio, o in alternativa, prescrivere alcune linee guida per l’industria dell’advertising che le compagnie potrebbero adottare volontariamente.
Nei piani di implementazione figura anche l’attivazione di uno standard già discusso nell’industria del settore e noto come “Do Not Track”, una soluzione che mira a garantire con una funzione unica, il diritto all’anonimato degli utenti, messo in discussione da vicende piuttosto attuali come l’aggiramento di protocolli P3P in disuso o l’attivazione di cookie indesiderati sui siti web, che il caso del tracciamento degli utenti iPhone e Mac operato da Google, ha evidenziato.

Eppure fa sorridere il fatto che la stesura e l’approvazione del nuovo “Consumer privacy bill of rights” firmato Obama, dipendano anche da compagnie come Google, Facebook, AOL o Yahoo!, vale a dire i più grandi competitor nel business dell’advertising sul web, facenti parte di un consorzio responsabile per la fornitura di circa il 90% delle inserzioni online. Un sistema fondato su annunci personalizzati che ha contribuito non poco all’aumento dell’economia digitale Usa ( del valore attuale di 200 miliardi), in buona parte anche frutto di quell’analisi accurata delle abitudini di navigazione degli utenti che la legislazione Obama, con la campagna “We can’t wait”, vorrebbe invece limitare.
Manuela Avino

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