Google, l’Europa e l’IA: occorre tassare le over the top

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La Commissione europea ha aperto una nuova procedura contro Google. L’accusa è quella di aver utilizzato contenuti editoriali per alimentare le sue funzioni di intelligenza artificiale senza un compenso equo per chi quei contenuti li produce. Bruxelles sospetta che l’azienda abbia violato le regole sulla concorrenza imponendo condizioni svantaggiose agli editori e creando un vantaggio illecito per i propri sistemi, in particolare per AI Overviews e AI Mode. Si tratta di un’inchiesta delicata perché entra nel cuore del rapporto tra piattaforme, giornali e creatori.

Ma partiamo da come funzionano AI Overviews e AI Mode. Quando un utente fa una ricerca, queste funzioni sintetizzano il contenuto del web e restituiscono una risposta diretta. L’utente non deve più cliccare sui link, non visita più i siti e non vede più il lavoro di chi ha prodotto quelle informazioni. Il traffico verso gli editori cala e cala anche la loro capacità di generare ricavi. L’algoritmo si sostituisce al giornalista. La piattaforma diventa l’unico punto di accesso all’informazione. È una rivoluzione che sposta valore dalle redazioni alle Big Tech. Le funzioni di IA creano nuove forme di intermediazione che riducono drasticamente la visibilità dei contenuti originali, pur utilizzandoli per generare risposte. È questo il nodo dell’indagine europea.

Il caso non nasce dal nulla. Negli ultimi anni l’Unione europea ha colpito più volte i giganti del digitale. Google ha ricevuto sanzioni miliardarie per abuso di posizione dominante nella pubblicità e nella ricerca. Meta è stata sanzionata per violazioni legate alla privacy e al trattamento dei dati. Amazon ha dovuto rivedere le sue pratiche commerciali. Molti di questi procedimenti sono ancora pendenti in appello e si trascinano da anni, segno di una battaglia legale complessa e di un quadro normativo che spesso arriva tardi rispetto alla velocità con cui si muovono le piattaforme. Le Big Tech contestano le decisioni, rivendicano il diritto di innovare e accusano l’Europa di frenare lo sviluppo. Bruxelles, però, vede in queste condotte un rischio concreto per la concorrenza e per il pluralismo dell’informazione.

La reazione internazionale è stata durissima. Donald Trump ha definito l’Europa un luogo nemico dell’innovazione e ha promesso di difendere le Big Tech americane da ciò che considera un attacco politico. Elon Musk ha accusato Bruxelles di voler controllare internet e ha minacciato una riduzione dei servizi offerti nei Paesi europei. Secondo entrambi, l’Europa usa la regolazione per proteggere il proprio mercato e colpire le imprese statunitensi. La risposta europea è opposta: non si tratta di una guerra commerciale, ma della difesa del pluralismo, della qualità dell’informazione e della concorrenza leale.

Il punto vero è che questa stagione normativa, pur necessaria, mostra ormai i suoi limiti. Il problema non è più solo regolamentare. L’asimmetria tra gli Stati e le grandi piattaforme è talmente ampia che nessun apparato di regole riesce a pareggiare il rapporto di forza. Le Big Tech crescono più velocemente di quanto i legislatori riescano a reagire. Le sanzioni arrivano anni dopo i comportamenti contestati. I ricorsi sospendono tutto. Le piattaforme continuano a operare senza che il danno agli editori venga colmato. L’informazione perde terreno ogni giorno e il mercato non riesce più a sostenerla.

In questo quadro, una via diversa diventa sempre più evidente. Non basta più regolare. Occorre tassare. Gli Stati devono riaffermare la loro sovranità imponendo un prelievo semplice, chiaro e non aggirabile sui ricavi generati dalle piattaforme che usano contenuti prodotti da altri. Il gettito di questa tassa deve confluire in un fondo stabile, trasparente e vincolato, destinato a sostenere il giornalismo indipendente e professionale. È l’unico modo per compensare la perdita di valore che le tecnologie di IA producono a danno dell’ecosistema informativo. Non come misura punitiva, ma come elemento di riequilibrio.

La logica è semplice. Se l’informazione è un bene pubblico, e se le piattaforme ne traggono un beneficio economico senza riconoscerlo, allora occorre un meccanismo che redistribuisca parte di quel valore a chi permette al sistema di esistere. Le sanzioni non bastano, le norme arrivano tardi, le trattative si trascinano. Una tassa è immediata e rimette al centro lo Stato. È una scelta politica che richiede coraggio, ma è l’unica in grado di invertire la rotta. Perché senza un finanziamento stabile e indipendente, l’informazione libera non ha futuro. E senza informazione libera non ha futuro nemmeno la democrazia.

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