ESAMI DI STATO PER GIORNALISTI PROFESSIONISTI: UN DISASTRO! RESPINTA LA METÀ DEI CANDIDATI

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Esami di stato per diventare giornalisti professionisti: aumentano i laureati; calano gli allievi provenienti dalle scuole; è sempre alto il numero degli ammessi d’ufficio; è impressionante constatare quanti candidati vengono bocciati dalle commissioni. Sono i titoli principali di un’analisi dei risultati degli esami professionali, condotta da “Giornalismoedemocrazia”. Ormai non è più obbligatoria la vecchia macchina da scrivere, ma la preparazione dei giovani giornalisti appare spesso insoddisfacente.

In attesa di una riforma che non arriva mai. Gli esami di stato restano un appuntamento importante, almeno fino a quando resiste la professione del giornalismo. Le innovazioni introdotte dall’Ordine nazionale sono state sostanziose, prima fra tutte la possibilità di usare un computer portatile (privato della memoria) in sostituzione della decrepita Olivetti. Le prove sono più moderne, più semplici e più frequenti, anche 4/5 sessioni ogni anno. Ma i problemi restano seri. Le statistiche mostrano numeri contraddittori e qua e là preoccupanti. Il livello della preparazione è basso, lo dicono le prove scritte e i colloqui orali.

I dati più rilevanti sono quelli che riguardano i riconoscimenti d’ufficio. Giovani privi di un praticantato in azienda, che vanno all’esame in quanto l’Ordine regionale riconosce sufficiente l’attività svolta, pur non avendo svolto i tradizionali 18 mesi. Sono giornalisti che in molti casi hanno lavorato già a lungo e che per questo, si dice, meritano di diventare professionisti. Ma la loro preparazione non può essere paragonata, ad esempio, a quella che si consegue nelle scuole di giornalismo (frequenza obbligatoria, laboratori, testate di carta e radiotelevisive, otto ore al giorno per quasi due anni). Per costoro gli Ordini regionali hanno reso obbligatoria la frequenza a brevi corsi di cultura (giuridica, economica) e di deontologia, ma il gap resta evidente. La percentuale dei riconoscimenti d’ufficio è varia (dal 20 al 25 per cento dei candidati ammessi all’esame) ma si aggira sempre sulle 200-300 unità, ogni anno.

Le 12 scuole di giornalismo che sono rimaste (l’Ordine ne ha chiuse 6 per mancanza di requisiti standard) inviano all’esame – rispetto ai riconoscimenti d’ufficio – una percentuale di allievi di poco inferiore (nel 2006 il 20,5%, nel 2007 il 20,3%, nel 2011 il 20,4). In qualche caso gli allievi frequentano anche un master universitario, in altre il rapporto con gli atenei è solo di collaborazione nelle materie più prettamente accademiche.

La lettura dei dati forniti dall’Ordine (in parte rielaborati da “Giornalismo e democrazia”) sui risultati delle prove d’esame sono sicuramente interessanti. Il basso numero degli “idonei” balza agli occhi. Fra quelli recenti, l’anno più brutto fu il 2009: 1421 ammessi e solo 955 idonei, una percentuale del 67,2 per cento. Ben 466 praticanti, che erano stati ammessi all’esame erano stati rimandati indietro. Da notare che la falce colpisce soprattutto alle prove scritte, mentre gli orali vengono poi superati più facilmente. L’ultima notizia, in ordine di tempo, è ancora più preoccupante. Nella sessione di esami che è ora in corso (le prove scritte si sono svolte il 24 aprile) la correzione degli elaborati è appena terminata: su 267 candidati un centinaio sono stati respinti. Un disastro, la prova provata che l’addestramento è scarso e il livello dei “praticanti” del tutto insufficiente.

Si può discutere di molte cose ovviamente. Dell’eccessiva ampiezza dei programmi: cosa deve sapere un giornalista professionista e cosa è tollerabile che non conosca? Oppure della indeterminatezza dei criteri di giudizio adottati e della maggiore o minore severità delle commissioni giudicatrici (costituite da due magistrati di Corte d’appello e da cinque giornalisti professioni, in attesa di una riforma che ammetta anche commissari diversi) ma la severità è d’obbligo in un esame che concede un titolo professionale e tutto sommato apprezzabile se si osservano i mass media in circolazione, ovvero la sciatteria e la pochezza di molti articoli su carta nonché gli strafalcioni contenuti in parecchi servizi radiotelevisivi.

Dati alla mano la riflessione deve comunque essere più ampia. Si continuerà così? E’ pensabile che giungano agli esami praticanti che presentano differenze di preparazione così abissali? Come è possibile che in molte regioni italiane non esistano scuole che consentano di affrontare l’esame di stato? E, visto che le aziende editoriali ben di rado assumono giovani, che senso ha mantenere una legge che affida proprio agli editori la preparazione alla professione? Sono quesiti ai quali non può essere l’Ordine a dare risposte – per parte sua ha cercato negli ultimi anni di semplificare il momento dell’esame (anche effettuando tre, quattro, anche cinque, appuntamenti ogni anno). Le soluzioni spettano al Parlamento, ma al suo interno qualcuno sta studiando i problemi della professione giornalistica? O meglio, a chi realmente interessano?

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