Luigi Di Maio torna a sbandierare la sua profonda e irriducibile avversione ai giornali e lo fa rivendicando, addirittura, i tagli all’editoria come esempio di buona amministrazione e di adesione ai principi del libero mercato. Gli stessi che, per tutti gli altri settori, secondo il M5S dovrebbero essere accantonati.
Dall’Abruzzo il vicepremier con delega al Lavoro si produce nell’ennesima prolusione contro le testate non allineate: “‘Il Foglio’, ‘Il Manifesto’, ‘L’Avvenire’, tutti questi personaggi qui, che per me devono vendere, devono esistere, ma non avranno più i nostri soldi perché io un giornale lo compro, non lo pago con le tasse. Se non mi piace e non vedo perché io debba pagare un giornale che non compro con i soldi delle mie tasse”.
Difatti, con le tasse non si comprano i giornali né le copie ma il diritto affinché ognuno sia messo in grado di poter dire la sua. Niente di più e niente di meno di quel valore costituzionale che si chiama pluralismo.
Ma Di Maio, evidentemente, non gradisce il dettato della legge fondamentale della Repubblica “on la legge di bilancio – ha spiegato – abbiamo tolto i fondi ai giornali: in tre anni si azzerera’ tutto, quest’anno il 25%, l’anno prossimo il 50%, tra tre anni zero”.
È importante continuare a parlare di pluralismo. E lo è a maggior ragione in quest’epoca…
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