DDL DIFFAMAZIONE: IL DIBATTITO SULLA “DERIVA” DEGLI EMENDAMENTI

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Ddl diffamazione: continua la discussione in commissione Giustizia al Senato. E gli emendamenti fioccano. Intanto monta il dibattito sulla “bontà” della nuova legge. Caterina Malavenda, esperta in materia, sembra sicura del fatto suo: «Si rischia una forma di dissuasione ad ampio spettro. Basta une rettifica per ripristinare l’onore leso». Pd e Fnsi rincarano la dose: «I maxi-risarcimenti sono un bavaglio». Gustavo Zabrebelsky, costituzionalista, commenta: «Giuste le sanzioni disciplinari severe. L’onore è un bene sommo. Rischiose le ingerenze dell’editore». Articolo 21, infine, lancia una raccolta firme online e il sito si blocca.
La corsa agli emendamenti al ddl diffamazione continuerà fino a domani: più di 100 quelli in cantiere. Ognuno con una sua ratio. Va ricordato che il testo in questione è nato per un solo motivo: eliminare il carcere ai giornalisti condannati per il reato di diffamazione. Il caso è sorto in seguito alla condanna a 14 mesi di reclusione inflitta all’ex direttore di Libero Alessandro Sallusti. Eppure sarebbe bastato scrivere un semplice decreto di due righe: “si elimina la galera per i reati di diffamazione”. Punto. Lo ha ricordato anche oggi il direttore del Giornale. Invece no. Molto meglio complicare le cose. E allora via col valzer delle modifiche.
Il ddl, inizialmente, ha avuto una genesi bipartisan. Infatti è stato partorito dai senatori Vannino Chiti (Pd) e Maurizio Gasparri (Pdl). Poi sono arrivati gli emendamenti: più di cento, come detto. La mission originaria era, e dovrebbe essere tuttora, quella di ripristinare l’onore della persona diffamata senza stangare più del dovuto il giornalista. Ma, come scrive Caterina Malavenda, avvocato ed esperta di diffamazione, il ddl si è trasformato in «una forma di dissuasione ad ampio spettro contro la libertà si stampa».
In realtà per ripristinare l’onore leso sarebbe bastato, secondo la Malavenda, una rettifica adeguata, visibile e documentata. Invece no. Oggi, nella giurisprudenza, l’onore ha un prezzo, quasi fosse un oggetto. Se qualcuno lo rompe poi deve pagare. E la cause per diffamazione possono anche sfociare in una sorta di bavaglio. I motivi sono diversi e facilmente intuibili: una maxi multa per un aggettivo di troppo significherebbe inibire i giornalisti e con essi la libertà di stampa.
Anche Chiti ha rinnegato la “sua creatura”: «Si rischia di fare una legge puramente sanzionalistica. Se è così, meglio fermarsi. Aboliamo il carcere. Poi si vedrà per il resto».
Il ddl, nato bipartisan, è ora oggetto di scontro tra Pd e Pdl. A quanto pare i pidiellini vorrebbero imporre sanzioni pecuniarie salatissime ai cronisti condannati. Mentre per i democratici i maxi risarcimenti costituirebbero un bavaglio. E per alcune piccole aziende comporterebbero addirittura la chiusura definitiva. Anche Roberto Natale, presidente della Fnsi paventa l’ipotesi di sanzioni esagerate, potenzialmente deterrenti per la libertà di espressione. «Se nelle prossime 36 ore non ci sarà un ravvedimento sarà meglio lasciare la legge che c’è», ha affermato Natale.
Ma, oltre alle sanzioni pecuniarie, ci sono altre variabili da considerare: l’estensione della norma ai blog, la responsabilità dei direttori, i provvedimenti disciplinari, la chiamata in causa degli editori e l’eliminazione della copertura economica che gli stessi editori devono ai giornalisti per eventuali richieste di risarcimento danni (il cosiddetto emendamento anti-Gabanelli dal nome della conduttrice di Report, programma di Rai Tre spesso fatto oggetto di querele e denunce per i temi scottanti di cui si occupa). E su tutti i parametri non c’è ancora chiarezza. Si è parlato di un tetto di 50 mila euro, ma il balletto delle cifre è in continuo fermento, tra sconti per rettifica e aumenti se si diffamano le Istituzioni. Inoltre è arrivata anche la proposta di modulare le multa a seconda della testate. Perché 5 mila euro di sanzione non sono la stessa cosa se a beccarli è una piccola testate locale anziché un colosso dell’informazione.
Gustavo Zabrebelsky, costituzionalista, oggi su Repubblica, invoca anche l’intervento degli Ordini professionali che «dovrebbero vigilare sulla deontologia e sulla onorabilità della professione» (ma hanno gli strumenti per farlo?). Inoltre per Zabrebelsky la chiamata in causa dell’editore provocherebbe ingerenze inaccettabili per la libertà delle redazioni. Invece le sanzioni disciplinari andrebbero bene. Il noto costituzionalista crede che siano coerenti: anche fino a 3 anni di sospensione in caso di recidiva e dolo. «L’onore è un bene sommo. La “macchina del fango” non può essere tollerata», ha precisato Zagrebelsky.
Quindi quello che all’inizio doveva essere un compito facile e condiviso si è trasformato in un ragnatela di correttivi e suggerimenti. E non tutti sembrano avere come obiettivo il miglioramento della libertà di stampa. Lo ha sottolineato Articolo 21, un’associazione per la libertà di stampa che sta conducendo una battaglia contro l’emendamento “anti-Gabanelli”. Articolo 21 ha organizzato una raccolta firme online per fermare l’emendamento. In meno di 48 ore l’appello ha incassato oltre 10mila firme. Poi succede l’imprevisto: il sito viene bloccato. E il testo dell’appello diventa irraggiungibile. Per i promotori non si tratta solo di un problema tecnico. Qualcuno ci ha messo lo zampino? Si tratta di boicottaggio?

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