Coronavirus. Fossati (Cronaca Qui): “Così cambierà il giornalismo italiano”

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Il viaggio di Editoria.tv tra le redazione dei quotidiani impegnati in prima linea nel racconto dell’emergenza coronavirus torna in Piemonte, e fa tappa a Torino. Qui la pandemia ha colpito duro. E non solo per le notizie strettamente sanitarie, per il numero dei contagi, dei ricoverati e purtroppo dei decessi. Ma perché ha acuito, e quindi svelato, una realtà durissima: la povertà aumenta. Anche in una delle città più ricche d’Italia, una delle capitali economiche del nostro Paese. Ne abbiamo parlato con Beppe Fossati, direttore di Torino CronacaQui.

 

Come è cambiato il rapporto con il territorio da parte del giornale? 

CronacaQui s’ispira alla storia del giornalismo vecchio stampo, quello fatto coi mocassini. Abbiamo, da sempre, un’attenzione quasi maniacale al territorio, quartieri e circoscrizioni, fino all’ultimo dei singoli condomini. Il nostro concetto di giornalismo è che, prima o poi busseremo alla tua porta. Abbiamo alcuni meriti che vanno ascritti al progetto iniziale stilato con l’editore Massimo Massaro e finalizzato a far partecipare i lettori. Nel 2002 è nato Cronaca Qui, prima di allora, il giornale si chiamava Torino Cronaca. Il “qui” è segno tangibile della missione di attenzione al territorio: con noi non lavorano solo i dieci giornalisti della redazione o i tanti collaboratori sulla “prima linea”, ma tutti i cittadini che il giornale l’hanno vissuto con noi. Se l’impostazione classica prevede che il giornale dica la sua, CronacaQui, invece, vuole raccontare la “nostra”.

L’impatto del coronavirus su un giornale di cronaca e di territorio come CronacaQui, che esce cinque volte alla settimana a Torino e provincia tirando quasi 45mila copie, è stato,  all’inizio, durissimo. Perché il cronista si è trovato imbrigliato in quelle che erano le normative per il contenimento del contagio e gli obblighi di stare a casa. Un cronista a casa trova difficoltà. Ci siamo organizzati: abbiamo lasciato la redazione come tutti i giornali italiani e abbiamo sperimentato lo smartworking che ci ha messo in condizione di poter lavorare senza tralasciare la presenza sul territorio. Abbiamo fatto un piccolo miracolo, raffinando la capacità di scegliere notizie e scegliendo poi di andare sui posti, ove fosse necessario, con tutte le precauzioni del caso. Una ancora maggiore attenzione sul territorio e maggiore concentrazione perché da casa non ci sono distrazioni tipiche di redazione: dalla sigaretta agli scambi di opinione, ha migliorato le performance del giornale e ha aggiunto maggiore attenzione e più verifica. I tempi di lavoro si sono dilatati e l’impegno ora è a tutto campo, costringendoci a regole nuove.

 

 

E’ cambiato, e se sì come, il rapporto con i lettori?

La comunità di lettori è abituata a utilizzare lettere di carta e penna, lo scritto ante-web. Ma ci arrivano anche molte mail e moltissime telefonate, tanti messaggi su WhatsApp. Questa emergenza ci insegnerà a essere sempre più comunità. Perché qualcosa ci ha pur costretti a imparare. E abbiamo imparato che si può fare la coda al market, che si deve stare a distanza di sicurezza, che si deve usare la mascherina, con tutte le problematiche che queste si trascinano dietro. La stragrande maggioranza dei cittadini ha imparato a proteggersi e a proteggere gli altri. Va detto e va sottolineata quest’attenzione. E va fatto al di là dei furbetti e degli strafottenti che ci sono e che ci saranno sempre.

Quest’emergenza ci ha insegnato a essere più comunità e sempre più attenti a un tema come la salute, prima un po’ trascurato. Il virus, inoltre, ci ha fatto riscoprire che il nostro fiume Po non è mica vero che è marroncino chiaro ma, anzi, può ritrovare qualche spazio di azzurro. Ecco, forse abbiamo anche imparato che probabilmente si è esagerato col menefreghismo verso i beni primari, e da domani forse saremo più attenti alla salvaguardia dei luoghi comuni.

 

 

Come è cambiato il lavoro giornalistico in redazione? 

Oggi ci ritroviamo con una notizia come il covid 19 che si articola su due emergenze: da un lato sanitaria e dall’altra parte relativa al problema del lavoro e dell’occupazione. A queste se ne è aggiunta una terza, sulla quale stiamo spingendo molto in questi giorni, quella della povertà. A livello nazionale alcuni dati sembravano essere “riservati” all’Istat, oggi invece sono temi di conoscenza comune. Sappiamo che in Italia ci sono 10 milioni di poveri, da questo fatto generico si dipanano tante situazioni concrete e reali, da raccontare. Ora sappiamo che l’occupazione è un problema variegato e la mancanza di mobilità ha messo in luce tante categorie: dalle badanti agli artigiani e fino ai piccoli ambulanti, e poi tanta gente che lavorava o piccoli contratti o in nero.

Solo in Piemonte ci sono circa 450mila persone che fanno parte di queste categorie che non sono esattamente censite e credo che questo abbia un impatto molto forte su quello che è il problema sociale del virus. Con tutte le sue inclinazioni che si manifestano negli aumenti di piccoli furti, negli assalti a supermercati e in qualche tentativo di strumentalizazzione della povertà da parte del mondo anarchico. Ma più in generale, tutto questo ci ha fatto capire che nella corsa a lavorare ci siamo dimenticati degli ultimi. Oggi abbiamo capito che solo grazie al volontariato, che si regge su quei pochi soldi delle istituzioni, si batte l’emergenza alimentare e lo si fa solo grazie ai pacchi.

Al di là dell’emergenza, il virus ci ha messi di fronte a realtà che nessuno di noi, nemmeno un giornale dalle mille inchieste come il nostro, era riuscito a fotografare prima. Quella dei grandi casermoni popolari, quelli cresciuti con l’industrializzazione di Torino, ma anche quella del ceto medio, delle partite Iva che si sono trovate senza lavoro.

Una pausa così lunga ha creato problemi nei confronti del quale il giornale ha cercato di essere puntualissimo, tessendo un rapporto quotidiano coi rappresentanti delle categorie, con gli attori del volontariato, con la pattuglia straordinariamente umana di medici e infermieri, portantini, donne delle pulizia che sono in trincea contro il virus.

Parlando con loro abbiamo capito cosa succedeva e abbiamo portato avanti le istanze del loro mondo, relative alle richieste di sicurezza, alla denuncia della mancanza di dispositivi di protezione individuali fino ai tamponi. Poi abbiamo dovuto raccontare una moria, come in guerra così sul fronte del Covid-19; molti degli “ufficiali” al fronte hanno perso la vita o si sono ammalati e oggi sono loro ricoverati in quei reparti che dirigevano. Questo ha modificato il nostro modo di lavorare e concepire la cronaca ma non ci ha distorti dal nostro quotidiano lavoro di essere al servizio dei cittadini, spiegando loro cosa accade: dalle mascherine alle fake news. E non abbiamo smesso neanche di occuparci dei problemi dei quartieri: una parte importante del racconto della vita nel tempo del Covid-19 è dentro i quartieri dove noi abbiamo continuato a lavorare e a parlare e scrivere di viabilità, scuole, cantieri fermi, giardini, di povertà, ultimi e clochard. Per poi andare avanti nello sport, in cui abbiamo raccontato la vita dei calciatori oltre a decisioni. Abbiamo scoperto raccontato lo sport e la cultura. Abbiamo cercato di stare dalla parte dei cittadini come buoni consiglieri: abbiamo scomodato una serie di chef stellati per farci raccontare le ricette di Pasqua e Pasquette.

 

Quali conseguenze l’epidemia avrà sui loro giornali e sul futuro della stampa?

Credo che la carta sia viva, non solo perché qualcuno ha iniziato a dire di fidarsi ma perché la gente ha capito che scrivere pensieri su carta, rileggersi e prendersi la responsabilità di ciò che si è scritto, vuol dire ponderare le notizie e non scrivere a vanvera il primo pensierino che ci viene in testa, come in troppi fanno sui social. Quando un giornale serio lavora sul territorio lo fa attraverso la voce dei protagonisti e scrive in maniera ponderata. Lo abbiamo visto dai numeri, dalle copie, nonostante ci siano più di 130 edicole (vere sentinelle del territorio e non meri distributori di giornali) chiuse sul nostro territorio. Diceva la mia edicolante che c’è stata una caduta dei giornali “leggeri” di gossip più attenzione nei confronti dei quotidiani e in particolare della stampa locale. Questo ci svela che l’attenzione sempre maggiore che il virus ha costrette le persone a essere attente a loro territorio. Tutti vogliamo sapere cosa accade a casa nostra, nel nostro quartiere, nella nostra frazione, nel nostro Paese. C’è un’attenzione maggiore alle notizie. Le sovraffollate redazioni di una volta si daranno una regolata. Occorrerà un sistema diverso nell’approccio alla professione, con una linea di indirizzo importante: valutare in anticipo temi da trattare (non aspettare la notizia) ma accorrere ad approfondire temi giganteschi, per esempio sul nostro territorio, quella delle Rsa, dove ancora sta accadendo di tutto. Facendo il lavoro che tutti dovrebbero fare: denunciare, scrivere di ciò che vuole sapere la gente. Dare risposte alle domande che devono senza più avere l’arroganza di avere la verità in tasca: Ci sono i testimoni dei fatti e le persone demandate ai singoli settori, che siano autorità o sindacati, se le loro versioni confliggono bisogna avere la pazienza di metterle a confronto. E non decidere chi ha ragione in maniera ideologica o preventiva.

 

Ha sentito la vicinanza delle istituzioni?

Ho sentito molte promesse. Ai giornali occorrerà sorvegliare sulle istituzioni e anche sui cittadini. Devo dire che stiamo scontando in maniera pericolosa una burocrazia che è stata costruita nel tempo, per motivi vari e diversi. La pandemia ci ha sorpresi dopo quasi due decenni di tagli alla sanità a cui si è cercato di sopperire facendo appello al cuore degli italiani e in qualche modo alle grandi fondazioni bancarie o alle grandi aziende. Ma queste hanno riversato poco di quello che hanno ottenuto prima in questa grande gara di solidarietà. Dobbiamo registrare però che le istituzioni hanno “marcato visita” su tante situazioni a cominciare dalla difesa dei più fragili, che abbiamo visto che fine hanno fatto nelle Rsa o nel lentissimo meccanismo di distribuzione dei bonus per le partite Iva o le sovvenzioni da 25mila euro per le aziende. Dobbiamo passare dalle parole ai fatti. E se dovessi dare un voto alle istituzioni, darei un cinque pieno. Quel voto che si dà per non bocciare.

Non devi mortificarti in una continua richiesta. Ciò vale per i cittadini, per le imprese e per i  negozi che hanno continuato a dover pagare affitti e bollette. Abbiamo documentato che in un negozio è arrivata una bolletta da 250 euro, a fronte di costi da consumo pari a 60 euro. Credo che un Paese moderno e saggio si debba occupare di queste cose, così come avrebbe dovuto preoccuparsi per la mascherine. Io ho due mascherine Ffp2, le ho pagate 8,50 euro. Oggi, sentire che si calmiererà il prezzo è pure apprezzabile ma mi chiedo perché non sia stato fatto prima. Il governo si è fatto trovare assolutamente impreparato a un’emergenza che però a gennaio riempiva i tg di tutto il mondo con tragedia cinese.

 

Come se ne esce da questa gravissima emergenza?

Temo che la risposta sia complessa. Intanto bisognerà capire quale sarà la curva della fine pandemia, l’unica comunicazione che arriva dal premier lascia intuire che le date si spostano sempre di più. Adesso scopriamo che il governo mi farà tagliare i riccioli dopo il primo giugno. Che andrebbero fatti tanti ragionamenti in un Paese che ha il 15% del Pil legato a turismo e ristorazione. Come farà a sopravvivere un ristorante che già traballava sotto il peso di imposte e tributi se oggi potrà fare non più di 20-25 coperti? Occorrerà una revisione, di un Paese già fortemente indebitato, sulla contribuzione. Sostanzialmente siamo fermi a marzo. Tre mesi sono un quarto dell’anno: come si comporranno i bilanci e come si comporteranno i cittadini rimane tutto da vedere. Immagino che gli aiuti dovranno essere davvero consistenti: c’è anche da curare lo spirito del cittadino e dell’imprenditore che ha grandi responsabilità ma enormi pesi. La macchina della cassaintegrazione finirà e allora ci si dovrà chiedere come si reggerà il costo del lavoro. Lo stesso varrà per giornali. La raccolta pubblicitaria è crollata con tutti i suoi presupposti. Da soli, i giornali non possono sopravvivere se non con dei forti aiuti di cui io poco sento parlare. Sono fondamentali ma devono essere messi in condizione di poter camminare con loro gambe, così come gli edicolanti e come tutta la macchina di democrazia in un Paese che deve ricostruirsi. Ma occorre che questa macchina sia sostenuta: apprezzo molto il governatore della Sicilia Nello Musumeci che ha stanziato milioni di euro per i giornali. Una Regione come il Piemonte forse metterà in campo due milioni per tv e giornali. Ma sono tristemente delle pagliuzze e non travi su cui poter ricostruire solidamente.

Credo che questa cosa cambierà e molto dipenderà da forza governo e dalla capacità degli italiani di tirarsi su le maniche. Occorre non lanciarsi in riaperture selvagge ma contrastare il ritorno focolai, i nuovi contagi veramente potrebbero essere un’arma letale capace di stroncare la nostra rinascita.

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