Con la chiusura dei giornali in cooperativa e non profit, l’Italia si priverebbe di un settore importante, che ha contribuito – sia pure con luci e ombre – a rafforzare il pluralismo dell’informazione. Di colpo, milioni di italiani si vedrebbero negato l’accesso all’informazione locale, di opinione o specialistica. Nessuno sogna il ritorno ai contributi a pioggia. Si tratta però di pensare in termini europei. E’ innegabile che nel settore siano presenti criticità e opacità sia sul piano gestionale sia sul versante della qualità e della completezza dell’informazione. Isolare le “mele marce”, espellere dal sistema chi non rispetta le regole è un obbligo, oltre che un dovere morale nei confronti di chi si sforza di confezionare un prodotti editoriali di qualità. Per questo è necessaria una riforma che allinei l’Italia al resto d’Europa. Nel 2008, la spesa italiana per il sostegno diretto o indiretto al settore ammontava a 12,05 euro pro capite l’anno. Nel 2012, è scesa a 6,74 euro pro capite per poi toccare i 5 euro nel 2013. In Francia, la spesa pro capite annua è di 18,77 euro; in Gran Bretagna, di 11,68 euro; in Germania di 6,51 euro pro capite. L’Italia ha toccato il fondo. Risalire la china non sarà facile. Il problema va affrontato, e in fretta, in un quadro di ripensamento complessivo del sistema. Servono leggi che garantiscano una distribuzione equa e rigorosa delle risorse, salvaguardando il pluralismo dell’informazione e l’occupazione reale. C’è bisogno, insomma, di un salto di qualità culturale, di ripartire dal rilievo costituzionale dell’informazione e del giornalismo professionale. Facile soltanto a parole. Soprattutto in un Paese che – dalla mai risolta questione dei conflitti di interesse al progetto di legge farsa sulla diffamazione – riesce a produrre soltanto imbarazzanti silenzi o inequivocabili pasticci.
fonte: (articolo21.org)
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