Editoria

Caltagirone, grandi tagli e maxi liquidità

Prima trimestrale da 36 milioni di euro per la Caltagirone Editore, con un calo del 7 per cento rispetto all’analogo periodo dell’anno scorso. Non si vedono ancora i frutti della drastica cura, tutta lacrime e sangue per i dipendenti (poligrafici, amministrativi e giornalisti) voluta dai vertici della dinasty? Una decisione “terapeutica” costata anche cara al capo famiglia, Francesco Gaetano, e ai rampolli Alessandro e Azzurra, che hanno abbandonato le cariche ricoperte in seno alla Fieg, dove l’ex moglie di Pierferdinando Casini figurava come vicepresidente. Può consolarsi, comunque, la dinamicissima Azzurra, con la fresca poltrona nel prestigioso cda di Banca Generali, il braccio creditizio del colosso assicurativo di casa nostra

Tutto nasce dalle nuove strategie made in Caltagirone sul fronte editoriale, che da vent’anni conta su una serie di testate: Messaggero e Mattino in pole position, poi Il Gazzettino di Venezia, il Corriere Adriatico, Leggo. “Una strategia servita per molto tempo – commentano alla federazione nazionale della stampa – soprattutto per questioni di affari a Napoli, via Mattino, con gli interessi nell’area di Bagnoli e quelli della Cementir, e per questioni di potere e mattonari a Roma, con il Messaggero. Da un po’, però, hanno pensato bene di avviare fortissimi tagli. Spremuto il limone, rischiano alla fine di rimanerne le scorze”. Sul fronte è da mesi in atto una guerriglia fino ad oggi poco fragorosa, e praticamente ignorata dagli stessi media. Una serie di scioperi che hanno fatto mancare spesso e volentieri i quotidiani in edicola, proteste sindacali, e poi l’uscita dalla Fieg.

Quale, in sostanza, la strategia adottata dalla Caltagirone Editore? Creare una sigla ad hoc per scaricarvi dentro una fetta di dipendenti (tra amministrativi, uffici del personale e di diffusione, segreterie di redazione, 77 in tutto): si tratta della “Servizi Italia 15”, la quale applica il contratto del commercio che – va notato – non prevede gli interventi della legge 416 per l’editoria in tema di ammortizzatori sociali, ad esempio i prepensionamenti. Spiega il Corsera: “lo scontro tra Caltagirone e Fieg è riconducibile alla vicenda legata alla controversa trasformazione del contratto di lavoro del personale poligrafico ‘produttivo’ mediante l’applicazione del contratto di commercio in luogo del contratto poligrafico/editoriale”. E, più in concreto, viene spiegato:per il settore è iniziata una ristrutturazione lacrime e sangue di cui poligrafici e giornalisti portano ancora i segni. Con il radicale taglio dei costi e la pulizia di bilancio (sono state svalutate le testate), il subsettore è dato in utile dal 2017. ‘Siamo di fronte a una profonda trasformazione tecnologica e di abitudini – dice Caltagirone – non credo che oggi l’editoria sia un punto di accumulo dei capitali’ ”.

Per i Caltagirone i “punti di accumulo di capitali” da un bel po’ sono ben altri. E molti ormai ‘distaccati’ all’estero. Fanno notare a piazza Affari: “Il 70 per cento circa del fatturato dei due colossi di casa Caltagirone, ossia Vianini e Cementir, parla straniero. Soprattutto scandinavo e poi turco. Certo, rimangano gli interessi ancora forti del mattone romano, e quelli targati Acea, con il 16 per cento delle quote. In quest’ultima con il nuovo governo cittadino e l’era Raggi con ogni probabilità cambierà qualcosa. E poi, non dimentichiamolo, i veri interessi che coltivano da noi sono quelli bancari e assicurativi, dove riescono ad investire enormi liquidità che rendono in termini di potere reale”. Più che pesanti, infatti, le quote azionarie in Unicredit (1 per cento), Monte dei Paschi (4 per cento), Mediobanca (13 per cento) e Generali (3,2 per cento; ma già si parla di un balzo al 5 per cento).

E se un tempo il mattone rendeva cotto e mangiato, “fabbricato e venduto”, ora è il tempo delle “gestioni immobiliari”, la creazione di società di scopo destinate al mattone, la cura dei portafogli immobiliari di ricchi enti del parastato. Come capita con una fresca creatura di casa Caltagirone, nel segno delle “new economy”: si chiama Fabrica, è una sgr, gestisce “una serie di fondi per varie casse previdenziali”. A Londra, nella mitica Piccadilly Circus, sta facendo shopping: creata con il Monte dei Paschi (di cui Francesco Gaetano è stato per anni vice presidente), Fabrica è ora tornata al 100 per cento in famiglia, avendo rilevato dall’istituto senese, impelagato in ben altri problemi, il 49 per cento che deteneva.

Altra “scatola” di gestioni immobiliari è poi “Domus”, solo da poco confluita sotto il protettivo ombrello di “Vianini Industria”, la corazzata della dinasty insieme a “Vianini Appalti”. Un nome, Vianini, che trent’anni fa risplendeva in Vaticano, quando la sigla faceva capo allo Ior. Fu un vero colpo, allora. Come del resto, il prezzo da ‘saldo’ pagato per l’altra gemma, Cementir, acquisita all’alba delle privatizzazioni volute da Romano Prodi al timone dell’Iri: appena 700 miliardi di vecchie lire, inizio ’90, 350 milioni di odierni euro, una bazzecola per una società che oggi fa ricavi per quasi 1 miliardo (di euro) l’anno.

Liquidi che escono, liquidi che entrano: come è il caso di Grandi Stazioni, la cui quota targata Caltagirone è stata appena venduta per quasi 1 miliardo. Cui si aggiunge, a ruota, l’appalto caldo caldo vinto a Stoccolma per realizzare la Tangenziale e il Raccordo anulare da quasi mezzo miliardo.

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