Lo shadowban non è un concetto astratto, né un termine astruso. Ma la prassi che le grandi piattaforme utilizzano per decidere le notizie meritevoli di diffusione. Partendo dagli autori, quasi sempre giornalisti, che possono essere ridotti, in modo silenzioso, all’invisibilità. I loro post non vengono censurati o cancellati, ma, semplicemente, nascosti. I contenuti restano online. Nessuna violazione formale. Nessun avviso. Ma la visibilità crolla improvvisamente.
Per chi ha qualche anno in più la memoria va all’uso di alcuni giornalai di nascondere sotto il bancone le copie delle testate che non gradivano. Una legge, ancora in vigore, prevedeva che tutti i giornali dovessero avere parità di trattamento nella rete di vendita, ma nulla vietava all’edicolante di non esporre una testata o, addirittura, di non darla all’acquirente adducendo l’esaurimento. Era una prassi legata talvolta all’idea politica, il giornalaio di sinistra tendeva a non vendere il giornale di destra e viceversa, o economica, guerriglia sotterranea agli editori che garantivano minor margine o cui c’erano stati screzi.
Le grandi piattaforme, oggi, fanno lo shadowban, come i giornalai di una volta, ma le differenze ci sono eccome. Infatti, mentre il giornalaio perdeva qualche copia venduta o qualche cliente, le piattaforme continuano a macinare utili su utili e attraverso questi sistemi riescono a condizionare l’opinione pubblica in modo da acquisire ulteriore potere e moltiplicare ancora gli utili.
Ma spieghiamoci meglio. I contenuti giornalistici continuano ad essere regolarmente pubblicati ma smettono di essere distribuiti dalle piattaforme social. Articoli condivisi che non compaiono più nei feed. Link che non generano traffico. Post che raggiungono solo una minima parte dei follower. Chi lavora nell’editoria digitale sa che non è un problema di qualità. È un problema di algoritmo.
La forza dello shadowban sta nella sua invisibilità. Non è una censura dichiarata. È una selezione silenziosa. Le piattaforme non dicono: “Questo contenuto è sbagliato”. Dicono, implicitamente: “Questo contenuto non è rilevante”. Ma la rilevanza non è neutra.
È una scelta editoriale mascherata da scelta tecnica.
E qui sta il punto politico della questione. Le piattaforme digitali condizionano l’opinione pubblica non solo decidendo cosa è vietato, ma decidendo cosa è visibile. Nel momento in cui un contenuto informativo non circola, non entra nel dibattito pubblico. Non viene discusso. Non viene contestato. Semplicemente scompare. È un potere enorme, esercitato da soggetti privati, senza trasparenza e senza responsabilità democratica.
Le regole ci sono o, meglio, ci sarebbero, perché la “povera” Unione Europea a dirla tutta ci prova, anche se viene sempre più sbeffeggiata da trumpisti e dintorni. Ha approvato un regolamento, il Digital Services Act proprio per affrontare questo squilibrio.
Non per impedire la moderazione, ma per renderla conoscibile e contestabile. Se una piattaforma limita la diffusione di un contenuto giornalistico, deve dirlo. Deve spiegare perché.
Deve consentire una forma di difesa. Anzi dovrebbe, perché capire cosa le piattaforme cosa diffondono e cosa nascondono è impossibile, è possibile non trovare un contenuto in rete, nonostante ci sia, il problema è capire è capire quanto è profondo lo scaffale del web dove è stato messo. E in questa prospettiva lo shadowban, così come praticato oggi, elude questi obblighi. È una scorciatoia che aggira lo spirito del DSA.
Il risultato è un pluralismo fittizio. Formalmente tutti possono pubblicare. Ma qualcuno decide cosa è rilevante e cosa no. È una selezione che favorisce i contenuti compatibili con gli interessi economici, politici o comunicativi della piattaforma. E penalizza quelli critici, complessi o semplicemente scomodi. Non serve vietare. Basta rendere irrilevanti.
Quando la formazione dell’opinione pubblica dipende da algoritmi opachi, la democrazia diventa fragile. Perché il potere non è più solo nelle istituzioni. È nei sistemi di distribuzione dell’informazione.
La domanda, alla fine, è semplice. Chi decide cosa conta nello spazio pubblico digitale? Se la risposta è “un algoritmo proprietario”, allora il problema non è solo giuridico. È profondamente politico. E lo shadowban è il suo strumento più efficace. E qualcosa mi dice che l’algoritmo sta riponendo questo articolo in uno scaffale molto polveroso.







