Quando il pm non può frugare nel pc del cronista: la Cassazione difende le fonti dei giornalisti

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In attesa che finalmente l’Italia recepisca in pieno il Regolamento European media freedom act, la Corte di Cassazione ribadisce i limiti delle Procure rispetto ai giornalisti.

Con la sentenza n. 11498 del 22 gennaio 2025 (Sez. VI penale) i giudici di legittimità hanno stabilito che il sequestro dei dispositivi informatici di un giornalista, quando è diretto in concreto a identificare una fonte riservata, costituisce una compressione del segreto professionale e può essere disposto solo rispettando i limiti stringenti fissati dall’art. 200, comma 3, c.p.p.

La vicenda nasce dalla pubblicazione, su un quotidiano, di atti coperti da segreto istruttorio relativi al suicidio di un’allieva della Scuola marescialli dei carabinieri, iscritti a modello 45 (cioè, nel registro dei fatti non costituenti reato).

La Procura ha aperto un’indagine per rivelazione illecita di segreto d’ufficio e ha deciso di intervenire sul giornalista che ha pubblicato la notizia e dopo una perquisizione ha disposto il sequestro dei dispositivi informatici in suo uso, con duplicazione integrale di tutti i dati contenuti nei supporti digitali.

Nella fase preliminare delle indagini la difesa ha impugnato il decreto di perquisizione e sequestro, ma il Tribunale del riesame ha confermato la misura cautelare. La Corte di cassazione, invece, ha aderito alle ragioni dei difensori del giornalista.

Trattandosi di una fase di indagini è evidente che il profilo oggetto di esame non riguarda la responsabilità penale, ma l’aspetto processuale. In altri termini è lecito un sequestro che ha ad oggetto il tentativo di scoprire la fonte della notizia?

La Cassazione ricorda che il nostro ordinamento riconosce ai giornalisti un vero e proprio “ius tacendi” sulla fonte fiduciaria. L’art. 200, comma 3, del codice di procedura penale consente di comprimere questo diritto solo in via eccezionale, se ricorrono tutte queste condizioni: la rivelazione dell’identità della fonte è indispensabile per provare il reato; non esiste alcun altro mezzo per accertare la veridicità della notizia; la deroga al segreto è autorizzata da un giudice con un provvedimento motivato.

Nel caso concreto – sottolinea la Corte – l’identificazione della fonte non avrebbe aggiunto nulla di realmente decisivo all’accertamento di un fatto illecito.
Il sequestro dei dispositivi digitali, dunque, non serviva a fare vera prova, ma era solo un modo per aggirare il segreto professionale e “risalire al confidente”.

La Cassazione ha inquadrato il problema su un piano più ampio, ossia quello del rapporto tra la libertà di informazione e l’interesse pubblico all’accertamento dei reati.

La segretezza delle fonti non deve essere considerata come un privilegio del giornalista, ma come una modalità di garanzia della libertà di informazione in senso ampio. Ricordiamo anche la Corte europea dei diritti dell’uomo ha più volte ribadito che la segretezza delle fonti è condizione essenziale per garantire la piena libertà di stampa.

Un passaggio particolarmente importante della sentenza è che le garanzie dell’art. 200, comma 3, c.p.p. non valgono solo quando il giornalista è chiamato a testimoniare in aula.

Secondo la Cassazione, gli stessi limiti devono estendersi anche ai mezzi di ricerca della prova, e quindi ai sequestri di telefoni, computer, hard disk, backup e archivi digitali, quando l’obiettivo sostanziale dell’atto è scoprire l’identità della fonte. Infatti, nel caso di specie il sequestro ha riguardato l’intero sistema informatico del giornalista, con duplicazione massiva dei dati, senza filtri né chiavi selettive:
la procura ha avuto, quindi, a disposizione tutti i dati personali del cronista, le informazioni su altre fonti e i contenuti di terzi del tutto estranei all’indagine con una misura a strascico del tutto sproporzionata rispetto alle finalità delle indagini.

La sentenza richiama anche un profilo istituzionale decisivo: chi può autorizzare la rottura del segreto sulle fonti.

L’art. 200, comma 3, c.p.p. prevede che sia il giudice a disporre il sequestro, dopo aver verificato nel merito la sussistenza dei requisiti di indispensabilità e insostituibilità dell’atto.

Nel caso deciso dalla Cassazione, invece, il sequestro era stato disposto direttamente dal pubblico ministero, senza alcuna previa autorizzazione giurisdizionale.
Di fatto, l’organo che conduce le indagini aveva deciso da solo di comprimere il segreto giornalistico, scavalcando il filtro di un soggetto terzo e imparziale.

La Corte di cassazione ha anticipato le nuove regole previste dall’European media freedom act che disciplina, tra l’altro, la segretezza delle fonti. Toccherebbe ora al legislatore mettere ora mano ad una materia essenziale per la libertà d’informazione.

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