Poste e il nodo ignorato dell’informazione. Il caso del Corriere Cesenate

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Francesco Zanotti, direttore del Corriere Cesenate, oggi ha pubblicato su Avvenire un articolo in cui ha denunciato un problema che da anni si trascina senza trovare ascolto. Il direttore racconta abbonati esasperati, copie consegnate con settimane di ritardo, reclami rimasti senza risposta, criticità costanti anche nei centri urbani. Una situazione aggravata dalla richiesta di Poste di trasferire a Bologna, invece che a Forlì e Ravenna, le 7-8 mila copie settimanali destinate al recapito. La promessa di un servizio più efficiente si è trasformata nell’ennesimo disservizio.

Il punto sollevato dal settimanale romagnolo merita attenzione non solo per il caso in sé, ma perché mette in luce un nodo che nel dibattito pubblico quasi non esiste. Si discute spesso delle edicole che chiudono, della crisi della rete distributiva privata, dell’evoluzione delle abitudini dei lettori. Si discute meno — o per nulla — del malfunzionamento del servizio postale, che rappresenta ancora la principale via di diffusione della stampa locale e diocesana. È un’assenza sorprendente, perché senza un recapito affidabile il giornale non raggiunge il lettore, indipendentemente dalla qualità del prodotto o dal modello editoriale.

C’è inoltre un dato che emerge con chiarezza e che raramente viene ricordato. Lo Stato riconosce a Poste Italiane un contributo specifico per il recapito dei giornali, pari a circa 50 milioni di euro l’anno. Una cifra nettamente superiore a quella destinata alla rete delle edicole, spesso al centro di discussioni e polemiche. Eppure, mentre il dibattito sulle edicole occupa con frequenza la scena pubblica, il tema del funzionamento reale del servizio postale rimane marginale, nonostante incida in modo diretto sulla possibilità di mantenere un rapporto stabile tra giornale e lettore.

Questo aspetto non riguarda solo il Corriere Cesenate. Il disservizio postale è un fattore strutturale che condiziona tutto il settore dell’informazione locale. Ritardi cronici, smarrimenti, consegne a giorni alterni, cambi di organizzazione non comunicati: elementi che indeboliscono la diffusione e alimentano la disaffezione. Il lettore che non riceve il giornale, soprattutto quello più anziano o residente nelle aree meno servite, perde fiducia e spesso rinuncia all’abbonamento. L’editore subisce un danno economico diretto e non ha strumenti per tutelarsi. Il risultato è un circolo vizioso che colpisce proprio quei giornali che dovrebbero garantire pluralismo, presidio territoriale e continuità informativa.

La contraddizione è evidente. Lo Stato sostiene il pluralismo con una legge che dal 2017 ha permesso a molte realtà locali di restare sul mercato, puntando su un modello basato sui ricavi e non sui costi. Ma lo stesso Stato finanzia anche il soggetto che dovrebbe assicurare il recapito dei giornali. Se il recapito non funziona, il beneficio della norma si riduce, e parte delle risorse pubbliche viene vanificata. In altre parole, si sostiene la produzione dell’informazione senza garantire che quell’informazione arrivi ai cittadini.

Il caso del settimanale romagnolo segnala dunque un problema più ampio: la tenuta concreta del servizio pubblico postale. Perché la filiera dell’informazione non si esaurisce nel lavoro delle redazioni, delle tipografie o degli edicolanti. La consegna del giornale, soprattutto per la stampa locale, è un passaggio decisivo. Se questo anello si interrompe, tutto il resto perde valore.

Serve quindi riportare al centro del confronto un tema che per lungo tempo è rimasto in secondo piano. La qualità del servizio postale non è una questione tecnica, ma un elemento che incide direttamente sulla vita delle comunità e sulla possibilità di mantenere vivo un pluralismo reale. Finché il recapito resterà così fragile, ogni discussione sulla crisi dell’editoria sarà inevitabilmente monca.

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