Lavoro, informazione e democrazia: Il Tirreno e GEDI, due storie che raccontano la stessa crisi

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C’è un filo rosso che attraversa le rimostranze sindacali delle giornaliste e dei giornalisti de Il Tirreno e le proteste che in queste settimane hanno investito le redazioni del gruppo GEDI: è il filo del lavoro come fondamento della democrazia e dell’informazione come bene pubblico. Due vicende diverse, per contesto proprietario e dimensioni industriali, ma sorprendentemente simili nella sostanza. Entrambe raccontano una crisi che non è soltanto economica, ma culturale e politica: la progressiva marginalizzazione del lavoro giornalistico e la riduzione dell’informazione a mera variabile di bilancio.

Il Tirreno: quando un progetto educativo diventa una contraddizione

Il documento dei lavoratori de Il Tirreno è, prima ancora che una protesta sindacale, una denuncia civile. La scelta dell’azienda di far uscire l’inserto Scuola 2030 nonostante uno stato di agitazione che prevedeva lo stop agli inserti viene descritta come una forzatura che svuota di senso proprio i valori che l’iniziativa vorrebbe promuovere: libertà di stampa, diritti costituzionali, partecipazione democratica.

Il paradosso è evidente. Un progetto pensato per insegnare alle studentesse e agli studenti il valore dell’informazione libera nasce — o meglio, viene fatto uscire — calpestando i diritti dei lavoratori dell’informazione. In particolare, il diritto di protesta e di rappresentanza sindacale, tutelato dalla Costituzione tanto quanto la libertà d’impresa. È su questo terreno che il conflitto si fa politico, non solo aziendale.

Le giornaliste e i giornalisti ricordano di aver contribuito in modo decisivo alla sopravvivenza del quotidiano: stipendi ridotti, cassa integrazione, sacrifici personali, sedi storiche chiuse, carichi di lavoro crescenti. In cambio, denunciano l’assenza di una vera strategia di rilancio, di investimenti strutturali, di una visione che vada oltre il ricorso sistematico ai tagli. La protesta non nasce contro l’innovazione, ma contro una gestione che confonde il risparmio con il futuro.

La replica dell’editore: la delegittimazione come metodo

La risposta dell’azienda SAE Toscana segue uno schema ormai ricorrente nel mondo dell’editoria: delegittimare il dissenso presentandolo come distruttivo, minoritario, perfino diffamatorio. Il cdr e una parte dei giornalisti vengono descritti come “isolati”, accusati di danneggiare l’immagine del giornale e di colpire un progetto considerato un “fiore all’occhiello” a livello nazionale.

Colpisce il rovesciamento della responsabilità: chi protesta per l’assenza di investimenti viene accusato di ostacolare lo sviluppo; chi rivendica diritti viene dipinto come nemico dell’azienda. È una retorica che trasforma il conflitto sindacale — fisiologico in una democrazia — in un atto di sabotaggio morale. Una retorica che, non a caso, prelude alla minaccia di azioni legali, altro strumento sempre più utilizzato per raffreddare il dissenso interno.

GEDI: grandi gruppi, stessi problemi

A uno sguardo superficiale, la vicenda GEDI potrebbe sembrare lontana anni luce da quella de Il Tirreno. Qui non si parla di un quotidiano locale in difficoltà, ma del più grande gruppo editoriale italiano, con testate nazionali storiche come la Repubblica e La Stampa. Eppure, le reazioni dei giornalisti alla possibile vendita del gruppo raccontano una storia sorprendentemente simile.

Anche in questo caso, al centro delle proteste ci sono le stesse domande: quale futuro per le redazioni? Quali garanzie per l’occupazione? Quale autonomia editoriale? Quale idea di informazione? Il passaggio di mano — dopo anni di ristrutturazioni, prepensionamenti e riduzioni di organico — viene vissuto non come un’opportunità, ma come l’ennesima operazione finanziaria che rischia di considerare i giornali più come asset che come istituzioni democratiche.

Il fatto che la politica sia intervenuta, chiedendo garanzie su pluralismo e occupazione, segnala quanto il tema sia diventato sensibile. Ma segnala anche un ritardo strutturale: l’attenzione arriva quando il danno è già avanzato, non quando si costruiscono le condizioni per evitarlo.

Un problema sistemico, non aziendale

Mettere a confronto Il Tirreno e GEDI significa riconoscere che la crisi dell’editoria non è una somma di cattive gestioni isolate, ma un problema sistemico. In entrambi i casi, i lavoratori denunciano l’assenza di una strategia industriale che metta al centro il lavoro, il sacrificio dei giornalisti viene dato per scontato e il conflitto viene raccontato come un ostacolo, non come una risorsa.

Eppure, la storia insegna che le crisi di sistema non si superano comprimendo il lavoro, ma investendo in competenze, innovazione, qualità. Tagliare può migliorare temporaneamente i conti, ma impoverisce il prodotto. E un giornale impoverito perde lettori, credibilità, funzione sociale. È una spirale che molti quotidiani italiani conoscono fin troppo bene.

Il silenzio delle istituzioni e il ruolo dei giovani

Particolarmente significativo, nel testo dei lavoratori de Il Tirreno, è il richiamo ai giovani e al vuoto che li circonda. La politica ascolta “a corrente alternata”, le istituzioni latitano. In questo vuoto, il rischio è che il conflitto venga normalizzato come rumore di fondo, anziché riconosciuto come un campanello d’allarme democratico.

Chiedere alle studentesse e agli studenti di riflettere sull’articolo 1 della Costituzione — sul lavoro come fondamento della Repubblica — non è un gesto strumentale, ma profondamente coerente. Perché se il giornalismo vuole davvero educare alla cittadinanza, deve prima dimostrare di rispettare al proprio interno i diritti che racconta all’esterno.

Una questione di democrazia

Il confronto tra Il Tirreno e GEDI mostra una verità scomoda: la libertà di stampa non è minacciata solo da censure esplicite o pressioni politiche, ma anche da modelli industriali che svuotano il lavoro di dignità e il giornalismo di prospettiva. Difendere i diritti dei giornalisti non è una battaglia corporativa, ma una battaglia per la qualità della democrazia.

Finché il lavoro verrà trattato come un costo da comprimere e non come un valore da coltivare, ogni inserto sulla Costituzione rischierà di essere una contraddizione vivente. E ogni vendita, ogni ristrutturazione, ogni “salvataggio” resterà incompleto, perché non potrà mai salvare ciò che rende un giornale davvero tale: le persone che lo fanno.

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