Domani il giornalista del Washington Post Jason Rezaian raggiungerà un triste traguardo: il suo cinquecentesimo giorno di detenzione in Iran. Si trova nel famigerato carcere di Evin, a Teheran, dove sono rinchiusi i prigionieri politici. Il suo compagno di cella è un uomo che non parla inglese né persiano, con evidenti conseguenze sulle loro capacità di comunicare. A Rezaian non è più consentito il contatto con il suo avvocato né la fornitura di libri da leggere. Sebbene il suo processo per spionaggio si sia chiuso il 10 agosto, né lui né il suo avvocato sono stati informati sulla sentenza. La vicenda va avanti da un periodo di 56 giorni superiore alla crisi degli ostaggi del 1979-81, quando 52 americani furono tenuti prigionieri nell’ambasciata degli Stati Uniti a Teheran. Anche se l’Iran ha arrestato altri giornalisti con cittadinanza straniera, Rezaian è quello tenuto in carcere per più tempo. Sua moglie, Yeganeh Salehi, cittadina iraniana, rimane in un limbo: arrestata con Rezaian il 22 luglio 2014, è stata rilasciata dopo due mesi, ma non le è stato permesso di tornare al suo lavoro di giornalista e rimane sotto la minaccia di un’azione penale. Un incontro settimanale con la moglie e con la madre è per Rezaian l’unica possibilità di uscire dal suo isolamento.