La lunga lettera di Marina Berlusconi al Corriere della Sera è un intervento che merita di essere letto con attenzione, non solo perché proviene da una figura centrale dell’editoria italiana, ma perché pone con chiarezza un tema che molti fingono di non vedere: la sproporzione di potere tra i grandi operatori del digitale e chi produce informazione, cultura, pensiero critico.
Nelle sue parole si percepisce l’allarme di chi osserva un sistema economico e culturale ormai sbilanciato, dove “i giganti della tecnologia rifiutano le regole, cioè la base di qualsiasi società davvero funzionante”. Un passaggio, questo, che riassume perfettamente la questione: nel nome dell’innovazione, le grandi piattaforme si sono arrogate il diritto di operare fuori da ogni cornice di responsabilità, di concorrenza e di trasparenza. Marina Berlusconi ricorda che “quasi due terzi del mercato pubblicitario globale vengono inghiottiti dai colossi della Silicon Valley”, mentre gli editori tradizionali, che pagano tasse, diritti d’autore e garantiscono occupazione, vengono schiacciati da un modello che premia l’elusione e la disintermediazione. Ma il suo ragionamento va oltre l’aspetto economico. L’avvertimento più lucido è quello che riguarda la capacità delle piattaforme di orientare l’opinione pubblica, di manipolare l’agenda collettiva attraverso l’algoritmo.
E qui si apre il paradosso più grave: se le piattaforme condizionano la percezione del reale, anche il potere politico finisce per subirle, e al tempo stesso per utilizzarle come strumento di consenso. Negli ultimi anni questo cortocircuito è diventato evidente. Durante la pandemia, il presidente Conte aveva scelto di parlare al Paese con dirette Facebook, sottraendosi al contraddittorio della stampa. Oggi la presidente Meloni comunica quasi esclusivamente attraverso i propri canali social, selezionando domande e tempi, rifuggendo il confronto diretto con i giornalisti. Ma non è solo una questione di nomi: da livello locale a quello nazionale, il modello è lo stesso. I capi degli esecutivi parlano “ai” cittadini e non più “attraverso” l’informazione, trasformando la comunicazione in una forma di governo. L’effetto è devastante: il giornalismo viene esautorato, la complessità sostituita da slogan e la verifica dei fatti da emozioni immediate. È la logica dei social, che non tollera le sfumature e impone un pensiero binario, istintivo, perfetto per alimentare la polarizzazione.
Marina Berlusconi, nella parte più personale della sua lettera, evoca i libri come “anticorpi contro l’assottigliamento del pensiero imposto dallo smartphone”. È un’immagine efficace, che vale anche per la stampa: il giornalismo vero resta un antidoto contro l’omologazione digitale e contro la confusione deliberata tra informazione e propaganda. La libertà di stampa, già fragile, è oggi massacrata dagli OTT che drenano risorse, visibilità e autorevolezza, e da una politica che ha smesso di difenderla perché preferisce il comfort dei propri canali social.
Eppure, senza una stampa libera, nessun sistema democratico può dirsi vitale. Le parole di Marina Berlusconi ci ricordano che la battaglia non è contro la tecnologia, ma per la responsabilità e la verità. Ed è una battaglia che riguarda tutti, perché nel rumore di fondo del digitale il silenzio dell’informazione rischia di essere definitivo.







