GEDI, politica e sindacati: il pluralismo a doppia velocità dell’informazione italiana

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John Elkann, presidente della Fiat

La situazione del gruppo GEDI è tornata al centro del dibattito politico e istituzionale.
Dopo le ultime decisioni della proprietà e le prospettive di cessione degli ultimi asset rimasti, il futuro dei giornali rimasti, La Stampa, Repubblica, l’Huffington Post, è diventato un tema di rilevanza nazionale.

Le dichiarazioni dei rappresentanti politici, arrivate in modo bipartisan, segnalano una preoccupazione diffusa per il destino del pluralismo dell’informazione in Italia. In questo contesto si colloca anche la convocazione dei sindacati e della proprietà da parte del sottosegretario all’Editoria Alberto Barachini, un passaggio che riconosce il peso della vicenda GEDI nel panorama editoriale italiano. Ma, e ci torneremo dopo, se addirittura il Governo interviene in un caso che, evidentemente, non è di sua stretta pertinenza, perché ciò non è accaduto e non accade per i numerosi casi in cui giornali di minore rilevanza sotto il profilo mediatico passano a soggetti poco affidabili o, addirittura, chiudono?

Per comprendere l’attuale crisi di GEDI è necessario tornare al 2020, anno in cui la famiglia Agnelli-Elkann, attraverso Exor, ha acquisito il controllo del gruppo. All’epoca l’operazione fu presentata come un investimento strategico su uno dei principali poli dell’informazione italiana. A distanza di pochi anni, il bilancio è radicalmente diverso.
Il progetto editoriale è stato progressivamente smantellato. Le testate locali sono state cedute a spezzatino. Gli asset considerati marginali sono stati venduti. Quelli rimasti vengono oggi trasferiti a un gruppo editoriale straniero.

È difficile non leggere questa parabola come un fallimento industriale. Ed è altrettanto difficile non cogliere lo squallore di una gestione che ha ridotto uno dei principali gruppi editoriali del Paese a un insieme di operazioni finanziarie che hanno avuto come risultato finale la disgregazione di uno dei principali gruppi editoriali italiani.

Ma la vicenda GEDI non riguarda soltanto l’editoria.
Il modello utilizzato dagli eredi della famiglia Agnelli in questa vicenda è mutuato da quello con cui da decenni ha smantellato l’industria italiana, improvvidamente,  consegnato dalla politica negli anni settanta ad una sola famiglia. La famiglia parla, briga, promette investimenti, che puntualmente non realizza, delocalizza, trasferisce le residenze fiscali, patteggia con il fisco e con le Procure posizioni che non sarebbero tollerabili nemmeno se fossero poste in atto dal fruttivendolo dietro l’angolo, e mi perdoni il fruttivendolo. Il potere per il potere, l’impunità e l’arroganza come modello di gestione, d’altronde il loro fiore all’occhiello, la squadra di calcio è da decenni sempre al centro di qualsiasi scandalo che coinvolge lo sport, dal doping, ai rolex, dagli esami “pezzottati”  dei calciatori ai magheggi finanziari per dissimulare le perdite.

La crisi di GEDI si inserisce in un quadro strutturale già fragile. Il mercato dell’informazione italiana è da tempo caratterizzato da forti dinamiche oligopolistiche. Pochi grandi gruppi, poche decisioni strategiche, scarsa capacità di intervento pubblico.

Oggi questo assetto rischia di essere sostituito da un oligopolio internazionale.
Gruppi editoriali stranieri, solidi e ben capitalizzati, acquisiscono testate storiche italiane senza che vi sia un disegno di politica industriale e culturale volto a tutelare il pluralismo e la sovranità informativa.

In assenza di un intervento strutturale, l’Italia rischia di perdere definitivamente il controllo di una parte rilevante della propria sovranità e autonomia comunicativa, come se non bastasse la distorsione generata dalle grandi piattaforme.

Colpisce, infine, la diversa attenzione riservata a questa crisi rispetto ad altre vicende editoriali recenti. La mobilitazione politica e sindacale per la Repubblica e La Stampa è comprensibile e legittima; ma lo stesso livello di attenzione non si è registrato quando GEDI ha ceduto testate locali a piccoli imprenditori, spesso con conseguenti riduzioni di personale e impoverimento delle redazioni. In quei casi, il silenzio è stato assordante.

I giornalisti di testate come Il Centro o La Città non hanno avuto la stessa visibilità né la stessa tutela. È come se esistesse un pluralismo di serie A e uno di serie B, dove solo alcune testate meritano attenzione pubblica e istituzionale.

La crisi di GEDI non è un episodio isolato. È il sintomo di un sistema che non riconosce l’informazione come bene pubblico e non protegge il lavoro giornalistico in modo uniforme. Finché il dibattito si concentrerà solo sui grandi marchi e non sulla struttura complessiva del settore, il pluralismo resterà fragile.
E l’Italia continuerà a perdere pezzi del proprio spazio democratico, discutendo sempre quando il pascolo è vuoto perché le pecore e gli agnelli, è il caso di dire, sono fuggiti.

 

 

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