Apple, App Tracking Transparency e abuso di posizione dominante: perché le sanzioni non bastano

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L’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha sanzionato ancora una volta una big tech: questa volta è stato il turno di Apple. Il provvedimento n. 31772, procedimento A561, riguarda il sistema App Tracking Transparency (ATT), introdotto dal gruppo di Cupertino come strumento di tutela della privacy degli utenti iOS.
Secondo l’Autorità, però, dietro la bandiera della protezione dei dati personali si nasconde un abuso di posizione dominante. In sintesi, trincerandosi dietro un valore del tutto condiviso, la tutela della privacy, l’Apple avrebbe stravolto le regole del mercato, inibendo l’accesso alla sua piattaforma agli operatori concorrenti.

Con ATT Apple impone alle app di terze parti di chiedere un consenso esplicito agli utenti per il tracciamento a fini pubblicitari. Sulla carta, una misura a tutela della riservatezza. Il problema è che, mentre i concorrenti non possono profilare gli utenti, Apple operando nel proprio ecosistema continua a raccogliere e a lavorare i dati degli utenti anche delle applicazioni che utilizzano il sistema iOS. In altri termini Apple non si dà nessuna regola, ma pretende l’applicazione di protocolli molto severi agli altri operatori.

L’AGCM non contesta il principio della tutela della privacy, ma il doppio standard. Apple ha imposto obblighi stringenti ai terzi senza adottare misure equivalenti per le proprie attività pubblicitarie, sfruttando il controllo del proprio sistema operativo per condizionare il mercato. Quindi, meno concorrenza, più concentrazione, meno pluralismo economico.

Le conseguenze non riguardano solo le big della pubblicità digitale, ossia i diretti concorrenti di Apple, ma anche e soprattutto gli anelli deboli della filiera, ossia i piccoli sviluppatori, le startup, gli editori digitali e i siti di informazione che vivono di pubblicità.

Meno dati significa meno valore degli spazi pubblicitari, meno ricavi significa meno investimenti e meno investimenti significa meno informazione, meno innovazione, meno pluralismo. È il solito schema. Le Big Tech rafforzano la loro rendita, mettendo ai margini i concorrenti.

Il punto politico e regolatorio è tutto qui. La privacy diventa un alibi, non uno strumento di equilibrio, ma un’arma di mercato. Il problema è che tra la decisione di e l’intervento delle Autorità passa del tempo e questo crea danni strutturali non ricomponibili. Anche tenendo conto della prassi sempre più consolidata da parte delle big tech di ricorrere contro ogni provvedimento, allungando i tempi stessi.

Il provvedimento dell’AGCM è sicuramente importante sul piano simbolico, ma non incide per nulla. Le grandi piattaforme mettono le sanzioni a bilancio. Le considerano un costo operativo, una voce prevedibile. Se un gruppo con capitalizzazione globale incassa miliardi grazie a un assetto di mercato distorto, una multa – anche rilevante – non cambia il comportamento. Conviene comunque. Il messaggio che passa è devastante: violate pure, poi si vedrà.

Questo caso lo dimostra ancora una volta. Non basta moltiplicare norme, procedimenti e richiami. DMA, DSA, antitrust nazionali. Strumenti importanti solo da un punto di vista teorico in quanto nella realtà si dimostrano del tutto inadeguati a fronteggiare il dirompente potere delle big tech. Queste, infatti, continuano a dettare l’agenda, anticipano le regole, le piegano, le aggirano. Per loro il diritto, come per un vicepremier italiano, conta fino a un certo punto.

Il problema non è solo giuridico. È politico. Poche imprese private decidono come circola l’informazione. Come si finanziano i contenuti. Chi può competere e chi no. Le autorità sanzionano, ma le piattaforme comandano.

Finché non si affronterà il tema del potere economico e sistemico delle Big Tech, ogni multa resterà un gesto tardivo. E ogni richiamo alla concorrenza una formula retorica. Il caso Apple-ATT non è un’eccezione. È la regola.

 

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