Quando i potenti scelgono i giornalisti

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L’accreditamento dei giornalisti nei palazzi delle istituzioni non è un fatto tecnico, né un rituale. È, da sempre, uno dei cardini delle democrazie occidentali: non è il potere a scegliere chi lo controlla, ma la stampa a scegliere come controllare il potere.

Ecco perché lo scontro aperto tra l’amministrazione Trump e il New York Times non è un episodio isolato e nemmeno un capriccio politico. È un punto di non ritorno di una tendenza che serpeggia da anni: selezionare i giornalisti che possano raccontare ciò che il potere fa.

Trump non inventa nulla: porta all’estremo una deriva già in corso

La decisione della Casa Bianca di sostituire il sistema tradizionale di accreditamento, togliendolo dalle mani della White House Correspondents’ Association per gestirlo direttamente dall’amministrazione, è, semplicemente, un salto di qualità.
La scelta di escludere alcune testate storiche come Associated Press da eventi cruciali – salvo poi essere obbligati da un giudice a riammetterle – mostra con chiarezza la logica di fondo: premiare i media amici, punire quelli critici.

Ma, per quanto Trump sia il caso più visibile, non è il primo né purtroppo l’unico.

L’Italia non è estranea a questa tentazione

Durante la pandemia, il presidente del Consiglio Giuseppe Conte e il suo portavoce Rocco Casalino decisero di fatto quali giornalisti potessero porre domande in quelle angoscianti conferenze stampa serali. Testate famose rischiavano di essere escluse dalle conferenze stampa per dei capricci dell’allora portavoce del Governo.
Un filtro che, giustificato dall’emergenza, aprì però un precedente pericoloso: se il governo sceglie chi può porre domande, l’informazione perde senso e diventa propaganda.

L’attuale premier Giorgia Meloni ha adottato un modello diverso ma ugualmente problematico: pochissime conferenze stampa, solo interviste selezionate a singole testate con giornalisti amici, spesso con domande concordate o comunque in contesti controllati.

Il principio è lo stesso: non affrontare le domande del sistema informativo, ma scegliere i giornalisti uno per uno.

Non solo politica: anche lo sport restringe il perimetro della critica

La dinamica non riguarda soltanto il potere politico. Sempre più spesso, nei grandi club sportivi – dal calcio alle competizioni internazionali – l’accesso allo stadio o alle conferenze stampa viene negato ai giornalisti considerati “scomodi”, magari colpevoli di avere criticato la proprietà.

Il messaggio è trasversale e pericoloso: l’informazione ammessa è quella gradita.

Il filo rosso: una democrazia dove chi governa sceglie chi può raccontare il potere

Che si tratti di Trump, Conte, Meloni o dei presidenti di squadre di calcio, la logica è la stessa: solo i giornalisti e le testate amiche possono porre domande a chi comanda, che è un modo, sostanzialmente per azzerare il rischio di domande scomode.

Per questo quanto accade negli Stati Uniti riguarda tutti noi: se la Casa Bianca apre la strada a un modello in cui l’accreditamento diventa uno strumento politico, molti governi – anche democratici – potrebbero sentirsi autorizzati a fare lo stesso.

È la frontiera pericolosa in cui stiamo entrando: una democrazia in cui il pluralismo non è garantito dalla legge e dalle istituzioni, ma concesso dal leader di turno.

Perché è un precedente gravissimo

L’accreditamento, la partecipazione alle conferenze stampa, il libero accesso agli eventi pubblici non sono privilegi corporativi dei giornalisti, ma garanzie per i cittadini.
Limitare questi diritti significa limitare il diritto di ognuno a conoscere, capire, criticare.

Trump sta solo accelerando una deriva globale autoritaria.

Ed è proprio quando il potere vuole scegliere chi può informare che capiamo quanto la democrazia sia oggi fragile in un Occidente ancora più fragile.

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