Il nuovo “patto” tra imprese e media? Una buona idea, ma con un rischio molto italiano

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Al Brand Journalism Festival, alla sua seconda edizione, si è parlato di un possibile “nuovo patto” tra imprese e informazione. Un’alleanza che dovrebbe sostenere un settore in crisi profonda e al tempo stesso aiutare le aziende a raccontarsi con più trasparenza e credibilità.
Il Festival, promosso da Social Reporters e ospitato a Roma l’11 novembre, ha messo insieme media, istituzioni e grandi gruppi industriali, presentando anche i dati dell’Osservatorio GenerationShip 2025 di Unipol.

Il quadro emerso è chiaro: gli under 40 si informano soprattutto sui social (Instagram al 79%, TikTok al 40%, YouTube al 43%). Ma sono anche una generazione stanca: il 53% si sente sopraffatto dal flusso informativo e il 45% tende ad allontanarsi dalle notizie.
Eppure, quando cercano conferme su fatti complessi, tornano ai media tradizionali. Non per amore dei giornali, ma perché, nel caos informativo, la domanda di autorevolezza torna sempre fuori.

A questo si aggiunge la fotografia scattata da Ipsos: fiducia nelle fonti in crollo (–64% in cinque anni), percezione diffusa che le notizie vengano distorte per influenzare il pubblico e un disagio crescente tra i giovani nel confrontarsi con opinioni diverse. Una società sempre più chiusa nelle proprie bolle, dove il rumore prevale sul contenuto.

In questo scenario, il Festival propone che le imprese diventino una sorta di mecenati della contemporaneità, capaci di sostenere economicamente un sistema informativo che fatica a reggere il modello pubblicitario tradizionale. È un’idea suggestiva, e in parte necessaria.
Ma è anche un’idea che, in Italia, porta con sé un rischio immediato.

La cultura imprenditoriale italiana non è quella anglosassone. Qui la comunicazione non è vista come un bene pubblico, ma come uno strumento strategico. E quando un soggetto economico finanzia un sistema informativo fragile, il rischio di condizionamento diventa evidente: meno autonomia editoriale, più prudenza, più comunicazione “corporate”, meno capacità di controllo sul potere economico.

Altrove, il mecenatismo funziona perché esistono fondazioni realmente indipendenti, nate per sostenere attività culturali e informative senza chiedere nulla in cambio. In Italia, invece, il concetto di fondazione è spesso ibrido. Molte svolgono un ruolo fondamentale, ma altre sono legate a gruppi industriali o partecipano a progetti che vivono di risorse pubbliche. Le eccezioni ci sono, ma non bastano a costruire quel sistema di garanzia necessario per proteggere l’autonomia del giornalismo.

E allora il punto diventa un altro: non si tratta di capire se le imprese possono sostenere l’informazione. Possono farlo, e in alcuni casi lo fanno già. La questione è come. E soprattutto: chi garantisce che un sostegno economico non diventi un sostegno interessato?

Perché se si indebolisce il giornalismo e si rafforza la comunicazione, la conseguenza è inevitabile: la narrazione del Paese finisce nelle mani di chi ha la forza economica per produrla. Ed è l’opposto di quello che serve oggi, in un’epoca in cui la polarizzazione aumenta e la fiducia diminuisce.

Il Festival ha avuto il merito di accendere una luce sul problema. Ma la soluzione non può essere l’esternalizzazione della funzione informativa alle aziende. La vera sfida non è costruire un patto tra imprese e media, ma definire un sistema di regole, garanzie e soggetti terzi capaci di proteggere l’autonomia dell’informazione.

Perché alla fine, al di là dei modelli di business e dei festival, resta una verità semplice: l’informazione è un bene pubblico. E come tale va trattato.

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